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L'Espresso: ultima fermata per BPVi. Dove comandano arzilli vecchietti

Di Rassegna Stampa Lunedi 2 Febbraio 2015 alle 14:06 | 0 commenti

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Di Vittorio Malagutti, da L'Espresso n. 5 Anno LX1 data cpertian 5 febbraio 2015
La città veneta contro il governo. Per difendere la sua Popolare. Ma i conti del gruppo peggiorano. E la vigilanza della Bce ha messo in crisi il potere del presidente Zonin
A Vicenza, se chiedete di Gianni Zonin, tutti vengono subito al punto. «Prima di lui la Popolare era una banchetta di provincia, adesso è tra le prime in Italia». Imprenditori, professionisti, politici, sindacalisti: difficile trovare una voce controcorrente.

Vent'anni e passa di potere assoluto hanno proiettato il presidente della Popolare di Vicenza nell'Olimpo degli intoccabili. Perché, da queste parti, la città e la sua banca sono una cosa sola.

E Zonin, imprenditore vinicolo, cavaliere del lavoro, gran navigatore del potere nostrano, è diventato, per forza di cose, il crocevia di ogni affare, l'arbitro delle contese, il passaggio obbligato verso incarichi e prebende.
La ricca Vicenza funziona così. E a cambiare non ci pensa proprio. Tantomeno se l'ordine arriva da Roma, capitale lontana ed estranea, su carta intestata del governo. Così, da giorni, tra i palazzi del Palladio che fanno da cornice allo splendido corso cittadino, volano parole grosse e proclami di resistenza all'ultimo respiro. «Giù le mani dalla nostra popolare», si sente ripetere nelle stanze del potere locale così come nei caffè del centro. Tutti ce l'hanno con Matteo Renzi e con il suo decreto legge che vorrebbe riformare il sistema delle banche cooperative (popolari, ndr). Un sistema immobile da decenni, che spesso finisce per consolidare nel tempo gruppi dirigenti e prassi di gestione tutt'altro che trasparenti.
Il governo ha deciso di intervenire sui dieci maggiori istituti della categoria, quelli con un attivo superiore agli 8 miliardi. E nel mirino è finita anche la popolare presieduta da Zonin, un colosso non quotato in Borsa con oltre 100 mila azionisti, in massima parte piccoli e piccolissimi. L'obiettivo principale della riforma è quello di trasformare le coop del credito in società per azioni, abolendo il sistema del voto capitario che assegna un voto, e un voto soltanto, a ciascun socio, qualunque sia il numero di azioni che possiede.
A giochi fatti, se mai il decreto riuscisse a passare indenne l'esame del Parlamento (esito tutt'altro che scontato), le popolari diventerebbero banche come le altre. In altre parole, sarebbero molto più semplici fusioni e aggregazioni varie, grandi soci come i fondi internazionali potrebbero fare il loro ingresso nell'azionariato e, in teoria, non sarebbero da escludere neppure scalate ostili. Un menù di questo tipo è quanto di più indigesto si possa immaginare per i vertici degli istituti cooperativi. Che infatti, riuniti sotto le insegne di Assopopolari, l'associazione di categoria, promettono battaglia per bloccare la riforma.
A Vicenza però, più che altrove, l'opposizione al decreto di Renzi viene scandita con i toni della crociata. E, a ben guardare, non è una sorpresa, perché solo qui, nella patria del Palladio, l'identificazione tra città e banca è così forte e totalizzante. Altrove il provvedimento del governo incrocia la rotta di giganti come il veronese Banco Popolare o l'Ubi di Bergamo, che per via di aggregazioni successive hanno in parte perso il loro radicamento territoriale. Un discorso simile vale anche per la Popolare dell'Emilia Romagna con base a Modena, mentre la milanese Bpm è solo una delle tante banche della metropoli lombarda. Popolare Sondrio e Credito Valtellinese si contendono tra loro l'alta Lombardia, Veneto Banca è partita dalla piccola Montebelluna, nel trevigiano, e la Popolare di Bari, fondata 55 anni fa, fa la figura della sorella minore di fronte a istituti di dimensioni ben maggiori, con un secolo e più di storia alle spalle. Resta la Popolare dell'Etruria, ma ad Arezzo si sono ormai rassegnati a perdere almeno in parte la loro autonomia. Lo impone un bilancio in crisi gravissima da anni.
A Vicenza invece alzano le barricate e i toni concilianti delle dichiarazioni ufficiali mascherano a fatica l'indignazione per quello che considerano un agguato del potere romano. Zonin rilascia interviste a raffica dove si dichiara «preoccupato e quasi incredulo» di fronte alla scelta del governo Renzi. Nei suoi recenti interventi a mezzo stampa il banchiere ha ammesso che «è finito un mondo» e, a parole, ha aperto la porta a una riforma del sistema. Per poi precisare, però, che ogni intervento va fatto «sempre con gli occhi rivolti alla tradizione delle banche popolari».
L'impressione è che la lobby del credito cooperativo, messa alle strette dalla mossa del governo, sia pronta a fare concessioni. Lo snodo fondamentale resta però quello del voto capitario. È questa l'ultima trincea di Zonin e dei suoi colleghi. Sanno che la riforma prospettata da Renzi, su forte spinta di Bankitalia e della Bce di Francoforte, avrebbe l'effetto, presto o tardi, di spazzar via un intero ceto dirigente da decenni pronto a tutto salvo che a mettersi in discussione. E certo sarebbe un paradosso, quasi una beffa, se Vicenza perdesse la sua banca proprio adesso che gli anni bui della crisi sembrano finalmente dietro le spalle.
«Qui le aziende hanno ripreso a correre, a esportare», dice Giuseppe Zigliotto, presidente della locale associazione degli industriali. In effetti l'industria vicentina, forte in settori con forte vocazione all'export come la meccanica, la conceria, l'oreficeria, è già riuscita ad agganciarsi alla ripresa internazionale. E la corsa prosegue, al traino del dollaro forte. «Ma se le nostre imprese sono riuscite a ristrutturarsi e a ripartire il merito è anche della Popolare, che a differenza delle grandi banche non ha mai smesso di sostenere il suo territorio», sottolinea Zigliotto (il quale è doppiamente parte in causa, visto che guida la Confindustria di Vicenza ed è anche consigliere dell'istituto presieduto da Zonin). I bilanci confermano. Negli anni della grande gelata del credito, quando il sistema ha chiuso il rubinetto dei prestiti, la banca vicentina non ha mai lesinato sui finanziamenti.
Questa scelta strategica ha pagato, se non altro in termini di quote di mercato. La prudenza dei concorrenti ha infatti spianato la strada alla rimonta della Popolare, che ha continuato ad aprire nuove filiali come se nulla fosse, puntando soprattutto verso Ovest, su una rotta che da Brescia e Bergamo porta fino alla Brianza e al Varesotto. Era il migliore dei mondi possibili, almeno all'apparenza. Le grandi banche nazionali faticavano a far tornare i conti, tra perdite miliardarie e clamorosi ribaltoni (vedi alla voce Mps e Unicredit). Vicenza, invece, conquistava nuovi territori, mentre il bilancio segnava bello stabile per la gioia dei piccoli azionisti, premiati da ricchi dividendi e dalla crescita del valore del titolo. Un valore, va ricordato, che nel caso delle Popolari non quotate in Borsa non viene fissato dal mercato ma dalle stesse banche, con la certificazione di una perizia commissionata (e pagata) a un commercialista.
Il muro di Zonin, però, ha cominciato a mostrare le prime crepe già alla fine del 2012, quando la Banca d'Italia, al termine di un'ispezione, ha chiesto «una specifica e approfondita riflessione sui parametri d'individuazione delle posizioni deteriorate». In altre parole, la Vigilanza si era convinta che le riserve accantonate a copertura dei prestiti a rischio fossero inferiori al dovuto.
A Vicenza non hanno potuto fare altro che obbedire. Risultato: nel giro di un paio di anni il bilancio ha accumulato nuove perdite per centinaia di milioni. Le rettifiche su crediti sono passate dai 159 milioni del 2011 ai 432 milioni segnalati a fine 2013, quando il bilancio, per la prima volta da tempo immemorabile, è andato in rosso di 22 milioni. Peggio ancora: gli azionisti delusi, e anche senza dividendi, si sono visti chiedere nuovi fondi dalla loro Popolare. Negli ultimi due anni, l'istituto vicentino ha raccolto oltre un miliardo tra aumenti di capitale e prestiti obbligazionari. E siccome moltissimi tra i vecchi soci non ne volevano sapere di aprire il portafoglio, i manager di Zonin hanno fatto i salti mortali per trovarne di nuovi. La platea dei soci si è così allargata a dismisura, passando da 70 a 100 mila nell'arco di tre anni.
I problemi però non erano ancora finiti. Anzi, la batosta più dura è arrivata nell'autunno scorso, quando sono stati resi noti i risultati delle verifiche disposte dalla Bce sui maggiori istituti di credito europei (Asset quality rewiev). Vicenza si è salvata in corner, deliberando la conversione anticipata di un prestito obbligazionario per sanare un deficit di capitale stimato in oltre 200 milioni.
La Popolare adesso contesta le valutazioni di Francoforte. Per quei test è stato utilizzato «un algoritmo molto discutibile», ha reagito il gruppo. Ma c'è poco da fare. Tanto più che alcuni analisti individuano altri punti critici nel bilancio. Ci si chiede per esempio se la banca non sarà prima o poi costretta a svalutare l'avviamento di 400 milioni attribuito ai 61 sportelli della concorrente Ubi rilevati nel 2007, in pieno boom di mercato. Tutte le grandi banche nazionali hanno già varato operazioni simili anni fa, subendo perdite pesantissime. La Popolare di Vicenza invece no.
La questione verrà affrontata con il prossimo bilancio, quello del 2014, che sarà presentato a primavera. La città è preoccupata. Si teme una nuova, pesante, pulizia nei conti. Da mesi centinaia di soci chiedono alla banca il rimborso dei titoli, ma il mercato informale gestito dallo stesso istituto è andato in tilt per mancanza di domanda. Gli azionisti rumoreggiano. Alcuni minacciano cause legali. Come se non bastasse adesso è arrivata la mazzata del decreto di Renzi, che minaccia di spazzar via il sistema delle grandi popolari. «Siamo solidi come la Svizzera», garantiva Zonin poco più di tre anni fa, nel settembre 2011, quando la finanza era spazzata dai venti di tempesta. Tempi che sembrano lontani, lontanissimi. Perfino Berna, adesso, ha dovuto mollare la presa sul franco. Vicenza spera di non fare lo stesso con la sua Popolare. Mica facile. 

 

In banca comandano gli arzilli vecchietti
V.M.
Era il 1983 quando Gianni Zonin fece il suo esordio tra gli amministratori della Popolare di Vicenza. A quell'epoca, per dire, Matteo Renzi aveva solo otto anni e frequentava i lupetti. Per Zonin invece partiva proprio allora una carriera che nell'arco di oltre 30 anni, di cui 20 come presidente, lo ha portato a frantumare ogni record di durata tra i suoi colleghi ancora in attività.
Il banchiere vicentino, classe 1937, a quanto pare non si sente ancora pronto per la pensione. Il suo mandato scade nel 2016, ma di recente, a una domanda sul possibile cambio della guardia, il diretto interessato si è schermito dicendo: «Dipende dalla salute, e dal consenso dei soci». Del resto il consiglio della Popolare di Vicenza non pare esattamente il posto più accogliente per i giovani in carriera. L'età media degli amministratori supera i 63 anni. Gli ultrasettantenni rappresentano un terzo dei 18 componenti del board. Tra loro c'è anche il vicepresidente Andrea Monorchio, classe 1939, l'ex ragioniere generale dello Stato che dal 2002, quando è andato in pensione, ha collezionato incarichi pubblici e privati. L'altro vicepresidente Marino Breganze, 67 anni, siede in consiglio dal lontano 1986 ed è anche presidente di Banca Nuova, la controllata del gruppo con sede a Palermo.
Nel collegio sindacale, poi, l'inamovibilità sembra la norma. L'organo di vigilanza è composto per due terzi da professionisti (Giovanni Zamberlan e Giacomo Cavalieri) nominati la prima volta quasi trent'anni fa. Se a questo si aggiunge che Zamberlan, classe 1939, è anche sindaco di una società (Acta spa) controllata dalla famiglia del presidente Zonin, l'ombra del conflitto d'interessi si fa più che concreta.
C'è poi la questione dei compensi. A differenza delle banche quotate in Borsa, la Popolare di Vicenza non ha l'obbligo di pubblicare gli emolumenti assegnati a consiglieri e sindaci. In una nota di sintesi depositata in Consob si segnala però che gli amministratori si sono spartiti nel 2013 una torta di complessivi 4,7 milioni di euro. Tra le grandi Popolari solo Ubi banca ha speso di più per gli stipendi dei propri amministratori, 6,8 milioni. Quest'ultima però deve remunerare anche i 23 membri del consiglio di sorveglianza che si aggiungono ai nove amministratori.
Totale 32 poltrone. A Vicenza invece sono 18 in tutto.


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