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Pace, terrorismo e stupro: la riflessione di una donna aggredita da un maniaco

Di Edoardo Andrein Venerdi 1 Agosto 2014 alle 14:39 | 0 commenti

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Negli ultimi giorni a Vicenza si è acceso sempre più un dibattito, anche su queste colonne, sui recenti fatti di sangue che stanno coinvolgendo israeliani e palestinesi, e sulle notizie di violenze perpetrate da alcuni soldati statunitensi di stanza in città. Vi abbiamo già riportato delle manifestazioni e presidi di protesta organizzati da cittadini, sindacati e associazioni per le vie cittadine, ora vi proponiamo una esperienza e riflessione che ci ha spedito la signora Ariel Shmona Edith Besozzi.

Negli ultimi tempi mi capita di leggere spesso appelli alla pace più o meno brevi, per lo più scritti da donne, ed ogni volta penso che, da un lato, ovviamente, anche io desidero la pace, dall'altro mi chiedo quanto queste parole siano davvero per la pace o invece nella loro ambiguità non alimentino i conflitti.

Dire che la guerra ha una finalità sua propria e risponde a logiche di potere, che la alimentano e che non hanno senso se non per se stesse, è un modo come un altro per mettere questa cosa fuori di sé ed in questo modo non assumersene la responsabilità.

La guerra è fatta da persone, ed è un elemento che caratterizza (questo può piacerci o meno) la storia dell'umanità.

E' possibile immaginare e quindi creare un mondo senza guerra? Io mi ostino a credere che lo sia, ma la mia risposta non può prescindere dal dire con parole chiare, alcune cose e soprattutto non può dirsi a partire da una presunta neutralità.

Ognuno di noi guarda gli avvenimenti, le persone, le situazioni a partire da sé, dalla propria storia, dalle proprie esperienze, dalla propria educazione e, si spera, dalla propria etica.

Alle persone è stato detto per molti secoli che esisteva un pensiero neutro, che, per esempio l'uso del maschile (che anche io adotto per comodità comunicativa) non era maschile ma era neutro, che tutto ciò che è stato pensato e teorizzato dagli uomini nel corso dei secoli valeva anche per le donne, ancora oggi alcuni sostengono sia così.

Nonostante molta elaborazione, la maggior parte delle donne fatica ad avere un punto di vista che non sia il frutto di questo pensiero “neutro universale”. Nella migliore delle ipotesi ce ne rendiamo conto guardando la difficoltà con la quale una donna riesce a dire “di sé” e “da sé”, fuori dagli schemi oppure, dentro gli schemi, ma senza paura. Nella peggiore delle ipotesi lo vediamo rappresentato dalle donne che inseguono un idea di emancipazione che annulla la loro identità in favore di una mascolinizazione particolarmente dei comportamenti, più che dell'estetica.

Ciò che contraddistingue in parte questo comportamento delle donne, siano esse in posizioni di potere, come in posizioni subordinate al potere, è la paura, e questo sentimento è il medesimo che determina le azioni del genere umano tutto, ed è anche il motivo per il quale si scatenano i conflitti, in generale.

Come si esce da questa dinamica e cosa può modificare sostanzialmente questo modo? A mio avviso si esce da questa dinamica nel momento in cui si ha la consapevolezza di potersi difendere da un'eventuale aggressione, si sa che questa sarà l'estrema razio, ma si sa altrettanto bene che si hanno le condizioni per non essere più violate o violati.

Questo esclude la guerra? Purtroppo no, perché esiste una parte di umanità, che possiamo definire in maniera generale e generalizzando, quella che risponde ancora a logiche di dominio e di sottomissione, che assume identità nel momento in cui sopprime il proprio nemico oppure lo sottomette completamente.

Esiste un disequilibrio etico fondamentale tra chi reagisce per difendersi e chi ha nella soppressione del nemico il proprio scopo, per questo occorre fare un altro passaggio per poter costruire davvero la pace.

Forse se porto il ragionamento sul mio corpo rimane più facile da comprendere, faccio un esempio: sono una donna di quarantun anni, lavoro come impiegata in un paese europeo, ho un meraviglioso marito, una bella famiglia, amiche ed amici. Per lo più mi vesto secondo il mio gusto ed il mio umore. Vivo in maniera serena. Una sera, uscendo dal mio ufficio mi trovo a passare in una via poco frequentata ed un uomo mi si avvicina con i genitali esposti in evidente stato di eccitazione, io sono spaventata, la mia incolumità fisica è a rischio, cerco di cambiare strada ma quello mi segue e mi raggiunge, a questo punto, avendo ricevuto un addestramento all'autodifesa riesco a reagire e blocco il mio aggressore che finisce a terra ed inizia ad urlare di essere stato aggredito.

Nel frattempo arrivano delle persone che vedendo la scena (compresi i pantaloni aperti dell'aggressore) si dividono, una parte viene verso di me con l'intento di soccorrermi, un'altra parte viene verso di me aggredendomi verbalmente e chiama le forze dell'ordine per denunciarmi ascoltando le lamentale del mio aggressore e fingendo di non vedere “i pantaloni aperti”.

Vengo sottoposta a processo e poiché io sono uscita incolume dall'aggressione e soltanto i testimoni contro di me si presentano, vengo condannata a risarcire il mio potenziale stupratore.

A questo punto chiedo: per costruire la pace cosa avrei dovuto fare? Mi sarei dovuta far violentare? Forse avrei potuto dosare le mie forze ma, il mio pensiero in quel momento è stato “devo salvarmi e se non sono decisa nella reazione rischio di soccombere” o qualcosa di simile.

Allora, per risolvere il problema della violenza sulle donne basta che queste prendano lezioni di autodifesa? Secondo me no, non è giusto che le donne siano costrette ad imparare a difendersi, ancora meno credo serva che le donne facciano analisi e convegni per parlarne, credo piuttosto occorra cambiare radicalmente la mentalità maschile e che tutti(uomini e donne) vengano cresciuti nella consapevolezza che per essere persone non hanno bisogno di opprimere altre persone. Certo è un processo faticoso perché vuole dire che tutti i maschi devono assumere su loro stessi la gestione del problema della violenza sulle donne e che per questo motivo devono farsi carico d'insegnare, a quelli di loro che la fanno o la farebbero, a comportarsi e quindi pensare in un altro modo.

Una vera grande rivoluzione culturale!

Andando oltre ci sono una serie di elementi in questo esempio di cui occorre tenere conto, per esempio la necessità di partire almeno da una base etica condivisa, la necessità di riconoscere l'altro/a da sé senza voler necessariamente appropriarsene, volerlo trasformare e rendere uguale a se o sottometterlo.

Per questo motivo trovo fastidioso chi parla di pace in medio-oriente mettendo sullo stesso piano Israele ed i suoi aggressori, chi ignora tutti i conflitti in corso ma si sente chiamato a manifestare la propria indignazione nei confronti d'Israele, e, nello stesso modo, trovo fastidioso anche chi non prende una posizione chiara invocando la pace senza tenere conto della differenza enorme tra le parti in gioco.

Tornando alla vicenda personale, mi rendo conto del fatto che non tutte le persone che si sono fermate dopo la mia aggressione si sono messe dalla mia parte, perché?

Facciamo conto che siano in buona fede, lui era a terra ed io ero in piedi, fisicamente incolume (sicuramente non emotivamente), sono io l'aggressiva. Ma quando vedono i pantaloni aperti come giustificano l'aggressore?

Diranno che io non dovevo essere in quel posto a quell'ora da sola.

Ero in uscita dall'ufficio, non dovevo tornare a casa?

Probabilmente non mi sarei dovuta mettere la gonna, lunga ma... insomma sono io che ho provocato eccitamento nel maniaco.

A questo punto chiedo: come, perché?

La risposta sarà qualcosa di teoricamente indicibile: con il tuo esistere ed il tuo essere lì in quel momento, oppure peggio, in fondo le donne sono sempre un po' troie!

Come si legittimano pensieri di questo tipo?

Nascono dalla paura del diverso da sé, chiunque esso/essa sia.

L'odio nei confronti del popolo ebraico è antico , quasi come l'odio di alcuni uomini e di alcune donne, nei confronti delle donne, assume differenti forme ma risponde sostanzialmente sempre alla stessa logica: odio gli ebrei perché sono altro da me ed in questo loro essere altro da me (esattamente come le donne per alcune ed alcuni) sono simili a me, ne ho bisogno , nello stesso tempo però non li/le capisco del tutto, secondo me ostentano la propria diversità, secondo me non vogliono conformarsi...e via così ...

Stranamente chi sostiene la causa palestinese legittimando il terrorismo islamico, ha comportamenti molto violenti sia nel corso delle manifestazioni, sia negli scritti, dimostra fortissima aggressività sia fisica che verbale, si definisce pacifista ma i modi, i contenuti sono aggressivi, arrivando fino ad atti di vandalismo oltre alle usuali bandiere bruciate, evidenziando un risentimento ed un odio nei confronti di Israele, degli ebrei che è evidentemente radicato dentro di loro, che prescinde dalla situazione contingente.

Per lo più, nella mia esperienza, questi sono parte di una marginalità, si sentono esclusi od escluse dalle scelte politiche portate avanti dai propri stati, fanno parte spesso di una sinistra extraparlamentare agonizzante o di una estrema destra altrettanto moribonda che evidentemente tentano in tutti i modi di ricompattare, ognuna le proprie fila (quale evidente similitudine tra le due!) attraverso la modalità classica del nemico comune: l'ebreo, Israele.

Infine mi sembra utile sottolineare che, l'islamismo attuale, lo stesso che aggredisce Israele, è maschilista e macista e dimostra di avere lo stesso comportamento aggressivo sia nei confronti di Israele sia delle donne, per questo si assiste (per esempio in Iran, Siria, Libia..) ad una sempre maggiore copertura del corpo femminile ed al controllo sulla vagina ed il piacere attraverso l'infibulazione oppure agli stupri di piazza come è accaduto in Egitto in occasione delle così dette primavere arabe.

Il terrorismo islamico e i manifestanti pro-Palestina sono due realtà assai differenti che hanno in comune un aumento esponenziale dei comportamenti aggressivi, la necessità di un credo forte ed assoluto (politico o religioso poco cambia) ma soprattutto dalla necessità di deresponsabilizzarsi per la condizione nella quale si trovano e che per questo cercano il nemico, il capro espiatorio.

Ma cosa centra questo con chi chiede la pace, chi si dissocia dalla guerra?

Il problema è che purtroppo non è possibile chiamarsi fuori da questa situazione, farlo significa legittimare l'aggressore, significa rinunciare alla possibilità di credere che sia possibile costruire la pace. Se vogliamo davvero fare in modo che le donne non siano costrette ad imparare l'autodifesa perché crediamo nell'umanità tutta e nella possibilità che gli uomini imparino a non aggredire le donne allora dobbiamo schierarci. Altrimenti obbligheremo per sempre il genere umano nella disperata condizione di non essere in grado di gestire i propri istinti e quindi legittimeremo un pezzo dopo l'altro il compimento dei peggiori abusi delle più atroci azioni.

Per questo deve essere chiaro che il fatto di difendersi non vuol dire essere colpevoli, il problema non è mio è dell'altro che deve compiere un lavoro su di sé ed imparare a relazionarsi a me senza aggredirmi, senza costringermi a difendermi. Fino a quando questo non sarà fatto ed io dovrò confrontarmi con il desideri di distruggermi, di eliminarmi, di sottomettermi allora potrò soltanto reagire per salvarmi la vita.

Chi aggredisce Israele con le armi come chi si scatena anche solo verbalmente contro Israele, se si guarda dentro fino in fondo si rende conto di essere preso da questo delirio, di volere soltanto azzerare queste differenze, di voler controllare ciò che non può essere controllato: l'altro da me.

Alcuni e alcune potrebbero dire che ad essere “violentati” sono i palestinesi, vero dai terroristi tra loro, da Hamas o da qualunque organizzazione cui affideranno le proprie sorti sapendo che lo farà sacrificando la loro vita pur di distruggere Israele.

Chi non sceglie la vita, prendendo una posizione, rinuncia alla cosa, secondo me, più bella ed importante per ogni essere umano, rinuncia alla propria parte di responsabilità, rinuncia al senso stesso dell'esistenza.


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