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Palestinesi e israeliani possono convivere in pace? Vera Pegna: sì, nonostante tutto

Di Rassegna Stampa Domenica 20 Maggio 2018 alle 09:15 | 0 commenti

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Un estratto da Linkiesta dell'ultimo libro dell'attivista italiana Vera Pegna, "Autobiografia del Novecento". L'autrice, di origine ebraica, è però da sempre una sostenitrice del popolo palestinese. Israeliani e palestinesi possono convivere e lo Stato Unico è, in realtà, in fase avanzata di gestazione.

Vera Pegna è di origine ebraica, ma nata e cresciuta ad Alessandria d'Egitto; è una traduttrice, attivista e scrittrice italiana. Recentemente è stato pubblicato il suo ultimo libro, Autobiografia del Novecento.

È la storia di una donna che ha attraversato il secolo con un unico, invincibile principio: siamo noi, con le nostre vite minuscole, a dover muovere il primo passo per costruire un futuro migliore; e sono i molti assetati di pace e giustizia, non le ambizioni dei pochi, a scrivere nel lungo tempo la traiettoria umana. I suoi ideali e la sua missione civile sono un dono e un imperativo per noi e per le generazioni a venire. Non si tratta soltanto della sua appassionante autobiografia, ma soprattutto di una riflessione storica che ripercorre gli avvenimenti più importanti del secolo scorso.

Vera Pegna, Autobiografia del Novecento, Il Saggiatore, 2018, 271 pp. (18 euro)

Avevo quattordici anni nel maggio del 1948 quando fu proclamato lo Stato d’Israele e non avrei certo potuto immaginare, allora, quanto la reazione indignata che questo fatto provocò nel nonno sarebbe diventata un alimento essenziale del mio pensiero e del mio impegno politico. Dopo lunghe ricerche nelle biblioteche, il nonno era giunto alla conclusione che l’uso dell’espressione popolo ebraico, adottata per giustificare la spartizione della Palestina e la creazione dello Stato d’Israele, era una turlupinatura. Si trovava soltanto nell’Antico Testamento e nessuno l’aveva mai usata, se non in senso biblico, fino alla nascita del progetto sionista alla fine dell’Ottocento. Non esisteva un popolo ebraico, diceva, ma un gran numero di comunità israelitiche sparse per il mondo che avevano in comune unicamente la religione e neanche si conoscevano tra di loro.

Dunque i fondatori del sionismo e dello Stato d’Israele avevano contrabbandato un mito biblico per una realtà vivente. Solo gli europei che avevano perseguitato e massacrato i loro ebrei per secoli potevano accettare – chi per cattiva coscienza e chi per interessi politici (oggi si direbbe geopolitici) – un simile inganno. Per noi, ebrei e non, che vivevamo in Egitto era chiaro che lo slogan fondante del sionismo: «Un popolo senza terra per una terra senza popolo» era una doppia impostura. Il «popolo senza terra», gli ebrei, non erano certo un popolo in senso moderno e politico mentre la «terra senza popolo», la Palestina, un popolo lo aveva e ne era testimone mio nonno che ci andava regolarmente per affari.

Dai suo viaggi riportava le squisite arance di Giaffa e l’olio d’oliva di Nablus e non dimenticava Sabun al Nabulsi, il sapone che mia nonna prediligeva per il bucato. E commentava: «Questi poveri ebrei europei (di loro diceva: “camminano rasentando i muri”), dopo tutte le sofferenze subite, non capiscono che se continuano a fare finta che i palestinesi non esistono e a prendersi dei pezzi di Palestina, finiranno per creare in quella regione il più grande ghetto della storia». E s’indignava raccontandomi che, alla Conferenza di Versailles del 1919, la delegazione sionista presentò delle mappe dalle quali risultava che la gran parte della Palestina era «terra a pascolo per nomadi», dunque una terra senza popolo per un popolo senza terra. Un falso, un inganno per appropriarsi della Palestina e giustificare l’espulsione dei suoi abitanti. All’inizio degli anni sessanta la mia scelta di campo era già chiara. Stavo dalla parte dei popoli oppressi che lottavano per la giustizia e per la libertà. Dunque stavo con i vietnamiti e con i palestinesi e ci stavo apertamente, pubblicamente, cercando di far conoscere le loro ragioni.

Più volte mi sono sentita dire: «Ma come, tu ebrea, difendi i nemici di Israele?». E pazientemente spiegavo che non sono ebrea (in questo caso l’uso del verbo essere contiene una doppia trappola: congela per sempre l’identità di una persona e riapre l’annosa questione di cosa s’intende per ebreo); non sono ebrea, semmai sono irreligiosa e di ebreo ho solamente la mia origine cultuale e la storia della mia famiglia, costretta dall’Inquisizione a fuggire dalla Spagna. Il sostenere questa posizione in pubblico e le discussioni vivaci, quando non aspre, che ne seguivano mi hanno permesso di capire quanto sia fitta la coltre di ignoranza e di confusione che ricopre il significato del termine ebreo, ma anche quanto da più parti ne viene fatto un uso interessato – anche se, talvolta, a fin di bene – e persino spregiudicato. In Italia, il primo libro che ritrae i palestinesi come combattenti per la libertà, e non unicamente come profughi e vittime, uscì nel 1969, dopo la mia visita al campo profughi in Cisgiordania dove andai su invito di Wael Zuaiter, il rappresentante di al-Fatàh in Italia, assassinato a Roma da una squadra di agenti del Mossad; è un libro di fotografie dedicato per la maggior parte all’addestramento dei combattenti, anche in situazioni di sopravvivenza, come può capitare loro se si trovano nel deserto.

Una sequenza di quattro foto mostra come catturano un serpente, gli staccano la testa con un morso, lo scuoiano, lo arrotolano intorno a un rametto e lo arrostiscono; uno dei fedayn me ne offrì un pezzo assicurandomi che, se l’avessi mangiato, il mio bambino avrebbe avuto un’intelligenza straordinaria (ero incinta e l’avevo detto ai miei accompagnatori per evitare troppi sbalzi del fuoristrada). Mia figlia Ann è venuta al mondo straordinariamente intelligente. Wael mi aveva spiegato che voleva farmi conoscere a dei profughi palestinesi «per dimostrargli che non tutti gli ebrei sono dalla parte di Israele». Accettai l’invito nonostante non fossi riuscita a convincere i miei interlocutori palestinesi che, nel definirmi ebrea, usavano gli stessi criteri stabiliti dai sionisti – e dai nazisti – per definire chi era ebreo, ovvero il criterio del sangue, o peggio, della razza. Comunque, ci andai e l’incontro con i palestinesi dei campi profughi fu commovente. Per tutti coloro che incontrai, senza eccezione alcuna, la differenza fra ebreo e sionista era chiara, molto più chiara di quanto non lo fosse allora per la maggioranza degli europei e di quanto non lo sia, tutt’oggi, da parte di chi afferma che l’antisionismo è una forma di antisemitismo. I palestinesi condannavano sì il sionismo che aveva portato alla cacciata violenta dalla loro terra e alla imposizione dello Stato d’Israele sulla Palestina, ma mai gli ebrei in quanto tali che chiamavano i loro «cugini». Anzi, i più anziani raccontavano come, prima dell’arrivo dei sionisti, le tre comunità religiose presenti sul territorio – quella musulmana, quella ebraica e quella cristiana – vivevano in pace tra loro e con le comunità minori: i melchiti, i copti, gli ortodossi, gli armeni.

Nei cinquanta e più anni trascorsi da allora, la benevolenza dei ricordi storici è stata sostituita da collera ed esasperazione a causa delle sofferenze inflitte al popolo palestinese dai governanti israeliani, nel silenzio quando non con il consenso delle comunità ebraiche dell’Occidente. E ancora oggi nelle cosiddette trattative di pace, i dirigenti israeliani continuano a esigere, sempre con il beneplacito degli occidentali, che Israele venga ufficialmente riconosciuto come Stato ebraico, ovvero lo stato di tutti gli ebrei del mondo, ma negano ai palestinesi il diritto di ritornare alle loro case, ai loro campi, alla terra dove sono sepolti i loro morti. Per i dirigenti di Israele gli ebrei critici dell’impresa sionista e delle malefatte dei governi israeliani meritano una sorte speciale; le persone di origine cultuale ebraica (da essi etichettate sic et simpliciter ebree e quindi ricadenti sotto il loro dominio), le quali hanno avuto l’ardire di criticare pubblicamente il progetto sionista e persino di schierarsi apertamente a fianco del popolo palestinese, tradiscono la loro appartenenza al popolo ebraico. All’inizio degli anni settanta, Golda Meir dichiarò che qualunque ebreo avesse sostenuto la lotta dei palestinesi sarebbe stato punito. Ecco come.

Quando Aldo Moro era nelle mani delle Brigate rosse, una mattina il giornale radio annunciò che i rapitori avevano «passato l’ostaggio ai palestinesi». Il fratello di Aldo Moro, Carlo, avvertito dal consolato israeliano che la persona di fiducia dei palestinesi in Italia era Vera Pegna, amica di Lelio Basso, corse da Basso, il quale, grazie al rapporto di incrollabile fiducia consolidatosi fra di noi, gli assicurò che mi conosceva troppo bene per non essere certo che, se avessi avuto qualsiasi informazione utile alla ricerca dell’onorevole Moro, l’avrei immediatamente rivelata. E non finì qui. Le forze dell’ordine perquisirono la casa di Sestu, in provincia di Cagliari, dove risiedevo e se ne andarono senza le armi che vi avevano invano cercato, ma portandosi via alcuni miei preziosi glossari perché erano «in lingue straniere». Ripensando alla dichiarazione di Golda Meir, la segnalazione a Carlo Moro da parte del consolato israeliano non mi sorprese. Era il prezzo previsto per chi tradiva. Questa fu la prima punizione messa in atto nei miei confronti. Scrive il professor Rabkin dell’Università di Montréal: «Minacce di rappresaglia sarebbero moneta corrente contro quanti si rifiutano di mostrarsi solidali con lo Stato di Israele. Argomenti che mettono in dubbio il sionismo e lo Stato di Israele provocano reazioni ostili».

La seconda «punizione» è più grave in quanto riguarda le istituzioni europee. La Commissione europea mi chiamava regolarmente a Bruxelles da oltre dieci anni quando, a un tratto, smise di offrirmi dei contratti. Contrariamente alla mia abitudine, chiamai io un paio di volte e la segretaria mi rispose: «No, grazie, non abbiamo bisogno di lei». Insospettita, andai a trovarla mentre ero a Bruxelles per un altro cliente e lei mi confermò di avere ricevuto l’ordine – che non poteva comunicarmi al telefono – di non ingaggiarmi più e mi consigliò di parlarne col capo interprete. Schmitt mi ricevette subito, confermò le parole della segretaria e mi suggerì di andare dal capo del personale, Monsieur Baichère, poiché avevo il diritto di sapere quanto mi riguardava. Questi, con tono sgradevole e indice alzato mi disse – ricordo le esatte parole – «Nos amis du Mossad», i nostri amici del Mossad, lo avevano informato che facevo attività pubbliche a favore dei palestinesi, cosa inaccettabile visti i buoni rapporti fra CEE e Israele.

Per un momento rimasi interdetta, poi gli chiesi se gli risultava che avessi compiuto atti ostili, messo bombe… «No, no, Madame, ma insomma, le sue posizioni pubbliche…» Con l’aiuto di mio padre, gli scrissi una lettera ricordandogli che avevamo fatto la Rivoluzione francese per avere diritto alla libertà di opinione e aggiunsi che mi sarei rivolta alla corte di Strasburgo se non toglieva il divieto da lui posto nei miei confronti. Nei successivi otto anni fece finta di farlo offrendomi un paio di giorni di lavoro a fine maggio, periodo di punta per gli interpreti di conferenza. Poi la situazione si sbloccò, anche grazie all’intervento dell’AIIC. Lelio Basso aveva un appuntamento con Yasser Arafāt a Damasco, dove entrambi ci trovavamo nella primavera del 1974 per una riunione dell’Unione interparlamentare, e mi chiese di accompagnarlo per fargli da interprete. Fu uno scambio molto intenso fra due protagonisti della storia. Concordarono che l’unica soluzione duratura del conflitto israelo-palestinese era uno stato unico, laico e democratico, per entrambi i popoli. Disse Arafāt: «Israele è il risultato di uno stupro ma i bambini illegittimi devono avere gli stessi diritti degli altri bambini».

Al momento dei saluti, Lelio disse al suo interlocutore che ero ebrea. Arafāt mi abbracciò forte, tirò fuori da un taschino una collana di perle dai colori della bandiera palestinese e me la mise intorno al collo: gli era stata donata da un combattente detenuto da anni nelle carceri israeliane. Ancora lo stato unico: nel libro Al Fatah, è di straordinario interesse la foto di un dipinto degli anni sessanta di un prigioniero palestinese: un combattente tiene un fucile fra le mani alzate e, allineati sopra il fucile, si vedono i luoghi di culto delle tre religioni monoteiste: l’idea della convivenza è sempre esistita per il popolo palestinese. Ma andava riconquistata con la lotta armata. Durante la mia infanzia e adolescenza in Egitto, l’ho vissuta questa convivenza, sia fra le religioni sia fra credenti e non credenti. Ricordo che a scuola, alle 10 del venerdì, c’era l’ora di religione. Le alunne si dividevano secondo la loro religione e noi atee venivamo spedite in piscina. Verso le 9.30 arrivavano lo sheikh, il rabbino, il pastore protestante e il prete, un paio di popi ortodossi e persino un zoroastriano. Bevevano il caffè insieme, seduti intorno a un tavolo, fino al suono della campana delle 10. Di convivenza non si parlava perché era la normalità. Ma allora, che cos’è successo? Chi ha portato divisione e odio tali da farla sembrare oggi impossibile?

Con il trascorrere del tempo, la mia maturazione politica si arricchì di nuove consapevolezze. Negli anni della decolonizzazione e delle lotte antimperialiste fui molto attiva nel Comitato Vietnam e collaborai con la Fondazione internazionale Lelio Basso. Lì feci degli incontri significativi come quello con la sudafricana Ruth First, uno dei difensori di Nelson Mandela, e di altri attivisti anti-apartheid accusati di tradimento contro lo Stato. Pochi mesi dopo il nostro incontro, Ruth fu uccisa da un pacco bomba a Maputo dove viveva in esilio. Con lei, di ascendenza ebraica, parlammo a lungo del significato dell’essere ebrei e convenimmo che la trappola – o se si preferisce, il malinteso – sta nel verbo essere. Entrambe condividevamo senza riserve la lotta del popolo palestinese e il fatto di appartenere a una famiglia di origine cultuale ebraica era per noi del tutto irrilevante. E, come per Ruth la lotta contro l’apartheid, per me la causa palestinese era fonte di coinvolgimento anche personale ed emotivo.

Mi tornavano in mente i miei anni in Egitto, i miei zii materni così sicuri di far parte del popolo eletto, sempre sprezzanti verso gli arabi, e mio padre e mio nonno, i quali ragionavano con gli strumenti del diritto e della politica. Poi l’incontro con Lelio Basso, l’acquisizione cosciente del legame indissolubile fra diritti dell’uomo e diritto dei popoli: finché a un popolo vengono negati i propri diritti collettivi, i diritti umani delle persone che lo compongono continueranno a essere violati. Tre casi emblematici: il popolo armeno, il popolo palestinese, il popolo curdo. Durante trenta e più anni ho sostenuto, con articoli e conferenze, le ragioni del popolo palestinese, pur avvertendo un certo malessere di fondo quando menzionavo le soluzioni proposte nei vari round delle cosiddette trattative di pace, tanto mi parevano ingiuste e comunque impraticabili. Invece mi ha sempre convinta l’idea di uno stato laico e democratico per entrambi i popoli ma, non possedendo gli elementi necessari per illustrarne la fattibilità, non osavo parlarne. E ciò fino al mese di maggio 2015 quando, in occasione di una conferenza alla Fondazione Lelio Basso, ho conosciuto lo storico palestinese Salman Abu Sitta le cui parole hanno avuto su di me lo stesso effetto di quel mezzo giro di caleidoscopio che, ricomponendo le tessere del mosaico, disegna un quadro nuovo.

Lo ascoltavo e annuivo. Aspettavo da anni che si uscisse dalle affermazioni di principio, dalle proposte nate morte, per affrontare finalmente la realtà sul terreno, ormai degradata a tal punto da escludere la creazione di uno stato palestinese sovrano sì da dare via libera alla progressione strisciante del progetto sionista: il possesso dell’intera Palestina storica ripulita dai suoi abitanti. Cercavo di capire se esistesse una via, per quanto lunga e difficile da percorrere, che potesse portare giustizia al popolo palestinese e mettere fine alle sue sofferenze: una via che partisse dalla ragione e dalle ragioni di un popolo anziché dalla strumentalizzazione di un mito biblico, foriero di conflittualità e di insopportabili crimini e soprusi. Il libro di Abu Sitta, Mapping My Return, è un’autobiografia che corre parallela alla storia della Palestina prima e dopo la Nakba ed è stato scritto al termine di una ricerca minuziosa durata quattro decenni, i cui risultati sono pubblicati in un monumentale Atlante della Palestina. Fra le fonti utilizzate, i registri dell’unrwa con oltre 700 000 famiglie e 4 milioni di individui e la cartografia del governo mandatario britannico (1920-1948) corredata dall’indicazione sia delle terre demaniali di ciascun villaggio, sia delle proprietà fondiarie di ogni singola famiglia.

Vi sono identificati 40 000 villaggi, siti storici, edifici, proprietà terriere appartenenti a palestinesi, con i nomi dei rispettivi titolari e i luoghi dove questi vivono oggi da rifugiati. Da tale documentazione risulta che due terzi dei 12 milioni di palestinesi sono profughi espulsi dalle loro case dal 1948 in poi, a seguito di ogni nuova avanzata israeliana; la stragrande maggioranza di essi vive sul suolo palestinese, o comunque entro un raggio di 100 chilometri dalla casa abbandonata al momento dell’espulsione. Per Abu Sitta «non si tratta di un elenco di ciò che i palestinesi hanno perso, ma dell’affermazione di ciò che
continua a definire loro stessi e le generazioni future. Il legame collettivo con la loro terra costituisce la fonte della loro legittimità nazionale. Viene qui documentato con una forza dirompente e nessuno gliela potrà togliere neppure con la morte, il diniego, la dispersione e l’occupazione».

Dunque, oltre che corrispondere a un principio sancito dal diritto internazionale, il ritorno alla terra d’origine è una meta sacra per i palestinesi. E mi piace fantasticare che sarà la stella polare che li guiderà sulla via del ritorno: immagino i profughi che lasciano i campi del Libano, della Siria e della Giordania e s’incamminano verso i loro luoghi d’origine con la prospettiva di convivere pacificamente con gli attuali abitanti. Sanno che, seppure difficile, la convivenza è possibile. Fa parte della loro storia, come insegnano i loro vecchi. L’autore ha esteso le sue ricerche alla distribuzione abitativa degli israeliani ebrei all’interno dello Stato d’Israele – a esclusione degli insediamenti dei coloni in Cisgiordania e a Gerusalemme est – e fornisce dati precisi su circa 1200 città israeliane e sulla provenienza dei loro abitanti. Secondo tale indagine, nonché altri studi recenti, l’80 per cento degli israeliani ebrei vive in solo il 17 per cento del territorio di Israele, mentre 272 villaggi contano pochissimi ebrei e 249 villaggi sono abitati esclusivamente da palestinesi.

Insomma, la realtà demografica sul terreno dimostra che il ritorno dei profughi è fattibile senza grossi spostamenti della popolazione israeliana e, fatto di non poco conto, l’intera operazione verrebbe a costare una percentuale irrisoria di quanto lo Stato di Israele spende annualmente per la propria sicurezza. Un ulteriore indicatore del futuro che inevitabilmente si sta preparando è dato dall’andamento demografico delle popolazioni oggi presenti nella Palestina storica. Questi sono i numeri: alla fine del 2015 vi vivevano 6,22 milioni di palestinesi e 6,34 milioni di israeliani ebrei; l’incremento demografico attuale di 3,04 per cento per i palestinesi e di 1,06 per cento per gli israeliani ebrei significa che alla fine del 2020 i palestinesi saranno 7,13 milioni e gli israeliani ebrei 6,96 milioni. Se a ciò aggiungiamo il fatto che dal punto di vista politico, militare e amministrativo lo Stato di Israele possiede, occupa e controlla l’intera Palestina storica, non è azzardato affermare che lo stato unico è in fase avanzata di gestazione.


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