Leone d’Oro per la Pace nel Mondo a Walter Arbib e a Giovanni Rana.
Domenica 29 Aprile 2018 alle 22:25 | 0 commenti
Come anticipato qui da Edoardo Pepe il Leone d’Oro per la Pace nel Mondo, che vale anche il titolo di Ambasciatore nel Mondo 2018, è stato assegnato la sera del 28 aprile al Comm. Walter Simon Arbib (al centro nella foto) con protocollo n. 40300 del 8 marzo 2018 della Camera dei Deputati e con protocollo 40301 dell’8 marzo 2018 al Cav. Giovanni Rana (il secondo da sinistra). Walter Arbib è intervenuto con un commento lungo e articolato in un dibattito su VicenzaPiù, alcuni anni fa. Conosco solo di riflesso e soprattutto come consumatrice il Cav. Rana, conosco invece Walter Arbib e so che è una persona straordinaria.
All’inizio l’ho osservato con bonaria diffidenza, la sua vita di cui ero conoscenza tramite comuni amicizie mi sembrava un ibrido tra realtà , follia, umanità , coraggio e fantascienza; avevo paura di trovarmi di fronte a un “ArabJewishKomunist†(un ebreo arabo comunista), uno, che andava ad allungare le file di quegli ebrei che dicono “da ebreo e per il bene di Israele sarebbe meglio che….â€,
insomma, un cugino dei kattokomunisti (uso scrivere con la doppia K per rafforzarne il significato). Nulla di più sbagliato e ingiustificata era la mia iniziale diffidenza: imparai a capire il significato dei suoi gesti ancor più del significato di tante parole.
Tra lui e me rimangono alcune distanze sui politici internazionali, nessuno è perfetto. È più probabile che abbia ragione Walter Arbib perché più maturo, esperto e pragmatico di me. Su tutto però prevale il dialogo e senza dialogo non si può costruire alcuna pace, perché la ragione raramente, a mio avviso, è da una sola parte.
Voglio ora dare spazio al discorso di Walter Arbib durante la premiazione, avvenuta nella splendida cornice del Comando Esercito Militare A. Cornoldi a Venezia, riservandomi di entrare nel dettaglio di temi espressi nel suo discorso, se richiesto, in seguito. La sua vita è un “Archivio della Memoria, del Detto e del Fatto†che restituisce a noi abbinamenti inusuali, quasi azzardati, ma che elargiscano grandi valori e straordinarie armonie.
Gentili membri del Gran Premio Internazionale di Venezia,
Presidente Candelaresi,
Senatore Baccini,
Signore e signori,
alla fine del 2003 un terribile terremoto colpì il sud dell’Iran. I morti furono oltre 26mila, i feriti 30mila. Molti paesi e organizzazioni umanitarie si attivarono per portare soccorso alle vittime. Tra queste, la Croce Rossa Italiana, che però si trovò davanti a un ostacolo, la mancanza di un aeromobile per far pervenire gli aiuti a destinazione: i mezzi adeguati erano già impegnati altrove. Maurizio Scelli, Alto Commissario della Croce Rossa mi contattò, chiedendomi se io e la mia compagnia potessimo dare una mano. Ci pensai, e mi venne un’idea: chiedere a Mu’ammar Gheddafi di usare il suo Antonov 124 personale, il velivolo più adatto a svolgere una missione del genere. Pareva una follia, fu un successo.Oggi siamo qui a parlare di pace, a celebrare la pace. Ecco, per me, per quello che ho cercato di fare nel corso della mia vita, la pace è questa: una storia che vede il dittatore libico, un ebreo che dovette abbandonare la Libia, un’organizzazione europea, lavorare per dare una mano a chi soffre in Iran, al di là dei proclami, al di là della retorica e forse anche del buon senso.
Con Scelli e la Croce Rossa Italiana lavoravamo insieme anche in Iraq, all’epoca della presenza italiana nel paese. E da laggiù portammo qui il piccolo Abbas, che aveva tre anni quando fu ferito nel terribile attacco di Nassiria, e necessitava di cure che non avrebbe potuto ricevere. E le due Simona, Pari e Torretta, rapite in Iraq e poi liberate e condotte in salvo grazie alla tenacia di Scelli che non esitò a rischiare la vita per loro.
È per questo un piacere avere qui il dottor Scelli, che saluto e ringrazio.
Nel Dizionario Zingarelli si legge che la parola “pace†deriva da una radice indoeuropea che significa “pattuireâ€, e indica assenza di lotte e conflitti armati tra popoli e nazioni. Tuttavia io voglio in questa occasione offrire anche una diversa lettura del concetto, quella della sua etimologia ebraica. Shalom, saluto universale, ha la stessa radice dell’aggettivo “shalemâ€, che significa pieno, completo. Ecco in tanti vedono la pace come la situazione che si raggiunge quando tutte le parti in causa rinunciano a qualcosa e pattuiscono. Senz’altro è vero. Ma nel costruire la pace, non dovremmo mai dimenticare né sottovalutare l’importanza di sentirsi completi, come esseri umani e come popoli.
Così voglio ricordare una storia da un altro caldissimo fronte contemporaneo, il Nord Corea. Nel 2000, nel periodo che precedette la visita del Segretario di Stato Madeleine Albright, l’ultimo alto rappresentante di un’amministrazione americana a recarsi nel paese, escludendo gli ultimissimi sviluppi, l'Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale decise di inviare a Pyongyang 100 tonnellate di patate da semina e ci chiese aiuto. Fu una missione complicata da negoziare, prima di tutto con gli stessi nord coreani, ma alla fine fu portata a termine. Il nostro aereo, un aereo americano, ottenne l’autorizzazione ad atterrare, un evento straordinario. Per l’occasione batteva la bandiera canadese, quella statunitense e quella nord coreana, fianco a fianco. Una bandiera in più, non una in meno.
Io sono orgoglioso di portare nel cuore quattro nazioni, Libia, Italia, Israele, Canada. Ciascuna rappresenta un pezzo della mia storia, e ciascuna nel corso della mia vita si è intrecciata con le altre. Ho trovato patrie e amici in tanti luoghi del mondo. Talvolta proprio tra coloro che diffidavano di me, per il mio essere occidentale, ebreo, libico, italiano, israeliano e così via.
Così ricordo per esempio quando una volta avevamo da consegnare medicinali a un ospedale di Betlemme. Un rappresentante palestinese in Canada cercò di fermarmi. Mi accusava di compiere un gesto propagandistico. Lo convinsi dicendogli che se avesse avuto un figlio in quell’ospedale avrebbe parlato in modo diverso e procedemmo. In seguito, diventammo amici e mi riconobbe di avergli impedito di fare un grave errore.
Perché, non dimentichiamolo, la pace si fa proprio con coloro con cui non andiamo d’accordo, con il nemico addirittura. Bisogna essere pronti a rischiare, a tendere la mano, a subire sconfitte, anche quando l’istinto vorrebbe impedircelo. E soprattutto a guardarsi negli occhi e a stringersi la mano.
Voglio chiudere rendendo omaggio all’Italia e a questa splendida città , Venezia. L’Italia è il paese che mi ha permesso di ricominciare, quando la mia famiglia si trovò a fuggire alle persecuzioni anti-ebraiche in Libia nel 1967, è il paese da cui sono partito per costruire e ricostruire fino ad arrivare a essere chi sono oggi. Venezia è un luogo unico al mondo, che dell’Italia racchiude tutto il fascino, e anche le sfide. Una città il cui simbolo, il Leone, lo stesso emblema del Premio che oggi ho il grande onore di ricevere, è tra l’altro anche uno dei simboli di un’altra città che mi sta molto a cuore, Gerusalemme.
È un’emozione e un privilegio essere qui oggi, e non posso che esprimere i miei più vivi ringraziamenti al Presidente, Dottor Sileno Candelaresi, al Presidente Onorario, Senatore Mario Baccini, e a tutti coloro che mi hanno voluto qua.
Un ringraziamento ancora più profondo va poi a chi da tutta la vita mi sta vicino e mi appoggia: mia moglie Edie, mi fratello Jack, i miei figli Dana e Stephen, i miei nipotini. E poi a tutti gli amici sul cui sostegno ho potuto contare, uno su tutti, qui oggi, il professor Tommaso Fiamingo, docente di Storia e Filosofia presso il Liceo “Morelli– Colao†di Vibo Valentia, che tre anni fa fu determinante nel darmi l’opportunità di tenere una lectio magistralis all’Università della Calabria.
Sono molto onorato anche della presenza della famiglia Perlasca. Giorgio Perlasca è per me un esempio di cosa vuol dire operare per la pace e per la salvezza di vite umane, anche a costo di rischiare la propria. Per questa ragione, per ricordarlo oggi e perché possano ricordarlo le future generazioni, qualche anno fa abbiamo piantato in suo onore in Israele un bosco di diecimila alberi.
Oggi ci stiamo occupando di fornire medicinali alle cliniche israeliane che curano i pazienti siriani, e di aiutare le popolazioni yazide. Perché, come recitano i Pirkei Avot, le Massime dei Padri: “Non spetta a te completare l’opera, ma neppure sei libero di esimerti dal perseguirlaâ€.
Di fronte alle difficoltà di questi anni incerti, con tanti nuovi angoli del mondo in fiamme, è forse questa la lezione più preziosa: fare qualcosa spetta a ciascuno di noi, l’indifferenza non è un’opzione.
Grazie per l’attenzione
Walter Simon Arbib
Â
Nota di redazione: i Pirkeu Avot, tradotto in italiano in Capitoli dei Padri sono una raccolta di insegnamenti etici e massime risalenti ai rabbini dell’era mishanaica. Proprio per gli insegnamenti dei testi sono conosciuti anche come Etica dei Padri o Massime dei Padri. Pirkei Avot è un’opera singolare poiché è il solo trattato del Talmud che parla esclusivamente di principi etici e morali e non ci sono contenuti halak
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