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La Voce del Sileno, Italo Francesco Baldo, Létara de Andrèa Alverà de Vicenza, dirèta al so amigo è compatrioto A. Goldin, su la maniera de scrìvare el dialèto visentin

Di Italo Francesco Baldo Giovedi 5 Gennaio 2017 alle 15:28 | 0 commenti

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Ospitiamo il sesto articolo de La Voce del Sileno, rivista on line che "intende coinvolgere tutti coloro che hanno a cuore la ricerca filosofica, culturale e in modo indipendente la propongono per un aperto e sereno confronto".
Létara de Andrèa Alverà de Vicenza, dirèta al so amigo è compatrioto A. Goldin, su la maniera de scrìvare el dialèto visentin è pèr determinare stabilmente la vèra pronuncia Vicenza, Editrice Veneta, 2008 di Italo Francesco Baldo - Vicenza
"L'uomo è uomo in quanto parla" sosteneva Wilhelm von Humboldt, ma un uomo che è suo vicino, lo interpreta. Questo il destino delle umane genti, parlare e interpretare, anche quando il parlare fosse scritto.(cfr. M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, cura di A. Caracciolo, Milano, Mursia, 1973).

 

In quel tempo vi era su tutta la terra una sola lingua e le stesse parole, ma gli uomini, dopo che Iddio confuse quell'unica lingua, inventarono dapprima tanti modi di parlare, uno per famiglia, uno per villaggio o porzione di villaggio, uno per ogni città e ogni nazione, ma non furono e non sono spesso nemmeno oggi d'accordo su come pronunciare quanto preferivano. Decisero allora di stabilire delle regole di pronuncia in modo che fosse facilitato il compito di utilizzare una determinata parlata e soprattutto non vi fosse quella confusione da cui erano nate proprio le parlate, che furon dette lingue e dialetti, ma son anche lessici familiari. Gli sforzi furono compiuti con attenzione e rigore, tanto che si può oggi parlare di una prospettiva che, almeno in via teorica, afferma che una lingua debba essere pronunciata in questo o in quel preciso modo. I dotti fecero assai presto, così si narra, a mettersi d'accordo per le lingue nazionali, anche se la disputa, basti ricordare il vicentino Gian Giorgio Trissino sulla scia di Dante e Bembo e successivi fu sempre aspra. Il favellar toscano ebbe la meglio e così Perpetua, donna di Introbbio nella Valsassina, favellò toscano. Sì, favellò toscano nell'immortale romanzo, ma nella vita certamente no. Parlava dialetto, come quasi tutti ai suoi e non solo suoi tempi. Così a Pescarenico, forse Olate, forse Acquate, oggi sobborghi di Lecco vi era un unico modo di pronunciare, ma forse anche no, anche lì tutto dipendeva dalla contrada. Come nella zona di Vicenza; difficile trovare nel suo territorio la stessa lingua e le stesse parole: variavano da zona a zona e con loro variava anche la pronuncia. In questo modo la lingua, meglio sarebbe dire il dialetto, le parole e la loro pronuncia mutava repentinamente da borgo a borgo. Così non poteva durare, l'esigenza che si era manifestata per la lingua nazionale, la vulgaris eloquentia, cioè quella di un'unità di parole, di pronuncia, poteva, anzi doveva, essere precisata anche per il dialetto, unificandolo in un qualcosa di almeno generale per una zona, nel nostro caso il Vicentino.
In questa fatica si cimentò Andrea Alverà (1799- 1845), che con pazienza e studio scrisse da Vicenza il 4 Aprile 1828 la Létara su la maniera de scrívare el dialèto visentin è per determinare stabilmente la vèra pronunçia. Subito sotto però l'Alverà, conscio dell'impresa e di quanti avrebbero avuto da ridire allora come ora, appose il famoso adagio: Quot homines, tot sententiae, e sotto ne diede una libera traduzione: Mi asogèto sto scrito ai giusti, è a quei, che capaçi de pensare, giúdica cola propria tèsta.
Con questi presupposti e la dedica ad Amalia Bettini, donna coltissima nelle lettere e nella difficile arte declamatoria, Alverà inizia a considerare il piacere di mettere in onore il nostro dialèto vìsentin moderno, una delle più nobili varianti della lingua comune italiana. Dichiarazione importantissima nel clima quasi risorgimentale, perché afferma il valore della parte, il dialetto vicentino, in connessione con il generale, la lingua italiana, che proprio un anno prima Manzoni aveva iniziato a nobilitare con i suoi I promessi sposi, ma che necessitarono di diversi sciacqui in Arno per essere ultimati definitivamente tra il 1840-42.
Da un lato lo scopo generale poi quello particolare, cioè di universalizzare almeno nella provincia la parlata vicentina, in modo che essa si nobiliti e non sia solo quella dei "fachini" o "i famitari", ma parlare "polito" e che tutti almeno nella provincia intendano. Per fare ciò l'Alverà userà il dialetto e l'operazione è condotta con grande attenzione allo scrivere e al pronunciare, dato che nella ortografia vi è "còsa èsenzialìssima pèr stabilire el vèro son è valore dele lètare". Tutto ciò perché fin dalle prime parole scritte, il lettore possa assuefarsi alla scrittura e alla pronuncia, l'uso degli accenti è preciso e puntuale, è esempio da seguirsi, in modo che non solo dal discorso generale e sistematico, come è in alcune parti dell'operetta, si tragga vantaggio, memoria e intelligenza del dialetto. Non a caso sostiene che lo studiare i dialetti serva ad arricchire la lingua nazionale, anche perchè con il dialetto si creano opere dilettevoli. Così il dialetto studiato è "Il vero modo di istruire il volgo in ogni genere di conoscenza, per portarlo a quella civiltà, che sarebbe inutile raggiungere per altre strade."
Da questi primi avvii è opportuno considerare che cosa sia il dialetto e valutare i suggerimenti dell'Alverà, che sono proposti secondo quanto afferma l'Enciclopedia Francese alla voce Ortografia, citata dal vicentino: "Tutto ciò che è ragionato e che può estendere la sfera delle idee: sia proponendone nuove, sia dando a quelle vecchie delle nuove combinazioni, deve essere visto come amabile e ricevuto con riconoscenza."
Il termine deriva dal greco διάλεκτος, dialektos, letteralmente "lingua parlata" ed è considerato una varietà linguistica o idioma, usato da abitanti originari di una particolare area geografica. Il numero di locutori, e l'area stessa, possono essere di dimensione arbitraria, esistono, infatti, isole dialettali dove vi è un interessante intreccio tra dialetto e lessico familiare. Un dialetto quindi può contenere all'interno di un territorio molte varianti, che a loro volta possono contenere sottovarianti di aree ancora minori, e così via. In realtà non esistono veri e propri criteri scientifici accettati dagli studiosi di linguistica per stabilire in modo rigoroso la differenza tra "lingue" e "dialetti". È accaduto ad esempio proprio nel Veneto che la lingua veneziana sia stata considerata un dialetto e così per il sardo-logudorese, parlato nella zona di Ozieri (SS). I criteri adottati sono spesso soggettivi e dipendono dal sistema d riferimento. Così la considerazione di cui gode "il toscano illustre" è stato a discapito delle altre lingue parlate in Italia dopo l'Unità e ciò anche in considerazione di quanto nella famosa Relazione al Ministro della Pubblica Istruzione, chiese Alessandro Manzoni. L'intendo era certamente buono e in vista di "fare gli italiani", ma questo non è però oggi un criterio accettato per distinguere italiano e dialetti, soprattutto dopo che la diffusione dei mass media, come la radio e la televisione, hanno contribuito a "mescolare" letteralmente tutte le parlate del territorio italiano, senza dimenticare poi i barbarismi, oggi non considerati più tali.
Spesso si considera la differenza tra "lingua" e "dialetto" il fatto che i dialetti non hanno una letteratura propria, riferendosi l'uso solo all'aspetto locutorio. In realtà anche questo criterio non è accettabile, dato che diversi scrittori hanno compiuto lo sforzo di produrre in "vernacolo" sia poesia sia racconti e talora testi teatrali, romanzi. Tra i tanti Nel campo della letteratura veneta spiccano il Ruzante (Angelo Beolco, ca. 1500-1542), Carlo Goldoni (Venezia 1707 - Parigi 1793) e i poeti Giorgio Baffo (Venezia, 1694-1768) e Berto Barbarani (Verona, 1872-1945) e recentemente il rodigino Gianni Sparapan o il vicentino Giovanni Costantini, che afferma R. Crovi: "È il più grande poeta di oggi, un sacerdote che ha trasformato la teologia in poesia" (Avvenire, 5 gennaio 1992).
Nemmeno il fatto che i dialetti non siano utilizzati per redigere documenti ufficiali è ragione sufficiente, dato che in veneziano furono redatti "milioni di documenti". Ricordiamo per inciso che il Placito capuano, una sentenza redatta a Capua dal giudice Arechisi, e considerato matrice dell'italiano, contiene in realtà una dichiarazione proferita in volgare campano.

Inoltre il fatto che si sia considerato come poco prestigioso, di basso volgo, l'uso dei dialetti, è norma per qualificare la loro differenza dalle lingue, dato che il dialetto, fino a che non esistette una scuola statale e un'indicazione di importanza, era usato da tutti i ceti sociali.
La questione della differenza tra lingua e dialetto, come sua variante, è in realtà una differenza che non ha mai una divaricazione precisa, perché sia che la chiamiamo lingua o dialetto sempre abbiamo a che fare, come ben sosteneva anche l'Alverà, con un qualcosa di "vivente" e in "moto perpetuo" che si modifica come il pensiero degli uomini. Sembra piuttosto che la questione voglia sempre ricondursi ad un fatto sociologico o quando non addirittura politico, ossia quando si pone una distinzione, frutto di sociologismi, tra classi fondata sull'uso della lingua piuttosto che del dialetto. Così "i ceti alti" parlerebbero la lingua, mentre quelli "bassi" il dialetto. La fortuna di costoro è che non esisteva il registratore nelle epoche passate, ché, altrimenti, si sarebbe ben sentito il conte Grimani parlare e pure imprecare in veneziano, come il Valmarana in vicentino o il San Bonifacio in veronese o in padovano e non certo sempre forbito, date le circostanze.
Non a caso, infatti, la linguistica moderna sostiene che lo status sociale di "lingua" non è unicamente determinato da criteri linguistici, magari definiti astrattamente, ma è anche il risultato di uno sviluppo storico e politico. Ad esempio, Il croato con i suoi dialetti,štokavo e čakavo, e il serbo diventarono lingue scritte sviluppando due tradizioni letterarie indipendenti, addirittura con l'uso di alfabeti differenti, e sono quindi considerate lingue indipendenti dai rispettivi parlanti, sebbene in realtà siano quasi identiche, ossia sono due varianti di una tradizione linguistica che è sostanzialmente unitaria. La loro differenza sul piano culturale è determinata dalle differenze di confessione religiosa (cattolica e ortodossa), di storia, il nord austriaco, il sud prima greco e poi turco, la costa romana prima, veneziana poi), oltre ai particolarismi locali. Le differenze più significative riguardano il lessico: latinismi, italianismi, venetismi e germanismi nel croato; grecismi e turcismi nel serbo
In definitiva la differenza tra una lingua e il dialetto può essere determinata astrattamente dal fatto che una lingua identifica una nazione, all'uso medioevale come si definivano presso le università: nazione polacca: coloro che parlavano in polacco; nazione francese, gli studenti di origine e parlata francese. Il dialetto invece o più in gergo ancora la parlata, con le sue innumerevoli varianti altro non è che la lingua più viva, che in parte un tempo facilmente di oggi si consolidava in alcune zone più o meno estese, a loro volta con particolarismi. Quest'ultimo incontra la lingua e si mescola in essa, pur considerando che esiste sempre una forma più o meno ufficiale di lingua. Ma basti leggere l'italiano del Seicento, non quello riprodotto dal Manzoni, o quello dell'Ottocento per accorgersi delle "piccole" differenze che il tempo ha prodotto.
Accanto a ciò la necessità, avvertita proprio dall'Alverà, di possedere regole stabili di pronuncia e di scrittura. Certo ciò si ottiene, sostiene sempre il vicentino, prendendo in prestito da altre lingue molti segni di pronuncia o di ortografia, ma rifacendosi anche alle analisi e proposte fatte nel tempo. Così il benemerito padre F. Soave nella sua Grammatica ragionata della lingua italiana, ( Venezia, F. Andreola, 1818) suggerisce di adoprare l'accento circonflesso dei francesi per meglio pronunciare, ma si devono tener presenti anche le soluzioni proposte per il dialetto veneziano o padovano, da parte dell'abate G. Patriarchi nel suo Dizionario veneziano e Padovano (Padova, Conzatti, 1796) o il G. Boerio nel Dizionario del dialetto veneziano (Venezia, A. Santini e f.o, 1829) o le intelligenti indicazioni fornite da G.G.Trissino nella sua Epistola de le lettere nuovamente aggiunte ne la lingua Italiana (Vicenza, T. Ianiculo da Bressa, 1529), soluzioni non accettate dall'Accademia della Crusca, ma pur sempre interessanti. Così la Lettera dell'Alverà evidenzia evidenziando le soluzioni da adottare, per scrivere e pronunciare bene il dialetto vicentino, e ricordiamo anche, perché merita di essere ricordata, quella che egli sosterrà nel 1830 ne Idea di un sistema ortografico pel dialetto vicentino, dove afferma:" la "x" è lettera affatto inutile e male adatta pel nostro dialetto".
Così questo piccolo lavoro, in realtà "capolavoro", dell'Alverà ci avverte del modo con cui allora, nel 1828, pensò di dettare regole precise per il dialetto vicentino, e oggi, in tempi di abusi linguistici di ogni genere, con variazioni derivate dalle singolarità, dai gerghi gruppali, dalle necessità che impongono i nuovi mezzi di comunicazione, dalle necessità della pubblicità, forse avere almeno un'attenzione maggiore per le regole non guasterebbe, perché anche i contenuti se son ben detti appaiono più precisi e comprensibili e valga sempre l'antico adagio, atto per lingue e dialetti: "Si sa, solo ciò che si sa spiegare".


Coordinatore de "La voce del Sileno" Italo Francesco Baldo
Si chiede a tutti coloro che leggono questo articolo di diffonderlo tra amici e conoscenti.
I contributi vanno inviati al coordinatore all'indirizzo di posta elettronica: [email protected]

Il busto de Il Sileno è presente nei Musei Civici di Padova

 

 


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