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"Gli americani a Vicenza" di Goffredo Parise: il prof. Dario Borso ci "regala" il capitolo VII corretto

Di Dario Borso Lunedi 28 Novembre 2016 alle 12:55 | 0 commenti

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"Gli americani a Vicenza" di Goffredo Parise: ci "regala" il capitolo VII corretto il prof. Dario Borso*

De Gli americani a Vicenza la Biblioteca Bertoliana conserva un dattiloscritto di fine 1957 corretto mesi dopo a mano e recapitato il 20 giugno 1958 alla redazione del mensile «L'Illustrazione Italiana», dove uscì in agosto privo però del settimo capitolo (che nel dattiloscritto è barrato a matita e preceduto da un «RIPRENDE CON LA CARTELLA 31» battuto con macchina diversa). Goffredo Parise nel 1966 ripubblicò il racconto presso l'editore Scheiwiller, e nel 1970 lo inserì in un'Antologia del Campiello finalmente completo poiché, come avvertì nella premessa, il capitolo «perduto è stato ritrovato». In realtà, Parise non ritrovò il dattiloscritto originale, che il giornalista Pino Dato avrebbe donato alla Bertoliana nel 2001 dopo averlo avuto inconsapevolmente in casa per oltre quarant'anni, ma una sua copia-carbone, sicché l'Antologia non riporta le correzioni al capitolo settimo della primavera 1958 (ventisei riguardanti punteggiatura, lessico e refusi, e una la soppressione di un lungo brano ridondante). 

Tutte queste vicissitudini hanno creato più di un inghippo: ad es., nel settimo capitolo del dattiloscritto originale Parise introduce un «Azerbagìan, ladro e ricattatore» che ricompare nell'ottavo giustamente senza più qualifica; sull'«Illustrazione Italiana» invece, mancando il capitolo settimo, Azerbagiàn compare solo una volta sola senza qualifica; accortosene, Parise rimediò aggiungendola nell'edizione Scheiwiller, ma così sull'Antologia, comprendente il capitolo settimo, Azerbagiàn compare munito due volte della stessa qualifica!
E non era finita. Subito dopo la morte di Parise infatti, nel 1987 l'erede Giosetta Fioroni e il critico Cesare Garboli allestirono per Mondadori una ristampa degli Americani senza il settimo capitolo poiché, pur intimi dell'autore a Roma, ignoravano l'esistenza dell'Antologia veneziana (presente invece nelle biblioteche pubbliche di vari capoluoghi veneti). Alla svista ha rimediato infine Domenico Scarpa con una recentissima ristampa Adelphi; solo che, sancendo la versione presente nell'Antologia come «conforme all'ultima volontà dell'autore», ha giudicato superfluo consultare per il capitolo settimo il dattiloscritto corretto della Bertoliana che, rispetto alla copia-carbone frettolosamente pubblicata da Parise, testimonia di uno stadio compositivo più avanzato (col risultato che nella ristampa Adelphi troviamo tubi al neon che lampeggiano invece di campeggiare contro il cielo, risucchi d'aria rombanti le orecchie invece che alle stesse, portelle d'auto invece di portiere, appostamenti «vicino dell'auto», quando negli altri quattro passi in cui «vicino» regge qualcosa, è sempre solo il dativo). Ecco il capitolo corretto:
 

Da circa venti giorni ogni sera una Chevrolet di color scuro, pesante e mal tenuta, sostava in prossimità delle macerie dell’antico teatro Eretenio, per ripartirne di lì a poco, veloce. Dagli anfratti delle rovine sepolte d’erbe e di salici intricati sorgevano in quei pochi istanti di sosta alcune figure di giovani che, a rapidi balzi lungo i cornicioni e le crepe, si appressavano all’automobile e vi si infilavano agili, con fischiettii e risatine; quindi la Chevrolet ripartiva silenziosa in direzione dei colli. Avevo già notato quell’auto scivolare veloce lungo le strade, rallentare o sostare in vicinanza di cantieri edili appena rischiarati da un lumino rosso, nei pressi di case in costruzione e di rovine periferiche; una sera quella stessa Chevrolet sostò per circa quindici minuti ai piedi del Seminario Vescovile, infilata nelle erbacce della zona di scarico. Da un pertugio alto una diecina di metri e come rientrante nelle massicce vecchie mura dell’edificio, era calato un biglietto come una farfalla bianca, giù tra le felci selvatiche sorgenti dai detriti. Senza rumore e forse già nascosto nel folto, il guidatore lo raccolse e ripartì. Lo seguii a distanza con la mia Topolino. Egli si diresse verso le mura del vicino cimitero israelitico, discese costeggiandolo e sparì lungo le sponde sinuose di un canale di irrigazione. Proseguii a piedi per raggiungerlo senza essere visto: giunto in vicinanza dell’auto quasi strisciando, lentissimamente presi a sbirciare nell’interno: un giovane, per quel che potevo vedere nel buio di quel quarto di luna, sui sedici o diciassette anni, vestito da d’Artagnan, o giù di lì, con un gran cappello piumato, dormiva. Ritornai rapido e sempre curvo alla mia automobile e a fari spenti attesi.

Era quella, dove sostavo, una via di circonvallazione ancora in disordine e illuminata qua e là a lunghe distanze da tubi al neon che campeggiavano contro il cielo scuro come sottili aste fosforescenti e senza riverbero. Chiunque si fosse addentrato a destra o a sinistra di quella via, nei campi, nei depositi di ferri vecchi appena cintati di filo spinato o lungo il canale di irrigazione alle spalle del cimitero israelitico, avrebbe potuto, a pochi metri dalla via di circonvallazione che corre su un dorsale a terrapieno, rimanere nell’ombra più fonda, nascosto, e nel medesimo tempo a portata di strada. E poiché, ai due lati di questa, scorrono canali e canaletti intricati le cui direzioni e anse son note solo a chi le conosce per avervi pescato o nuotato o fatto saltare delle cariche per intontire le anguille, l’impressione, per chi transita sulla strada è che non vi si possa scendere a causa delle acque che sembrano lambirla parallele da entrambi i lati.

Trascorse quasi un’ora prima che qualcuno apparisse dall’ombra. Grossi camion passavano sulla strada a veloce andatura, i teloni bagnati d’una pioggia caduta lontano, forse nel Friuli o a Trieste, provocando risucchi d’aria che rombavano alle orecchie. Silenziose e leggere alcune biciclette dal lumino abbagliante andavano verso la campagna costeggiando le mura della città e la grossa mole d’Alcazar del Seminario Vescovile, sepolta nell’oscurità dei ritiri spirituali. A quell’ora forse anche i passi del padre lettore s’erano spenti nei corridoi; nelle lunghe camerate a volta, confusa nel primo sonno incerto tra le immagini della realtà e quelle baluginanti della preghiera, si muoveva forse in passi appena pronunciati la figura esile di S. Ignazio Maria de Liguori, o quella, possente come i suoi quattro volumi, del padre Alfonso Rodriguez, rivestito d’umiltà contro le tentazioni. O forse un chierico solo (quello del biglietto lanciato dal pertugio), a piedi scalzi e il cuore in tumulto, raggiungeva correndo il suo letto di ferro, vi si infilava tremando e non riusciva a prendere sonno, tali e tanti erano i tormenti dell’animo.

Trascorsa dunque quasi un’ora, durante la quale m’era parso di udire sbattere la portiera dell’automobile e un fruscio lungo le sponde del canale, udii accendersi il motore e in pochi istanti la Chevrolet fu sulla strada. L’americano accese i fari, appena in tempo per illuminare in pieno la mia Topolino che stava per ripartire lenta: ci fu da entrambe le parti un attimo di esitazione: l’americano spense i fari, io pigiai sull’acceleratore, inutile manovra dal momento che dovevo voltare. Poi i fari si riaccesero, l’auto salì dall’ombra forzando sul motore e scivolò via silenziosa sulla strada.

All’incrocio sorpassai: guardando nell'interno della Chevrolet vidi che il ragazzo vestito da d’Artagnan non c’era più. L’americano era solo al volante e mi parve tutto fradicio, come uscente da un fiume. Accelerai ancora e girai in una viuzza laterale; lasciai correre silenziosa l’auto americana e, di nuovo, a lunga distanza, la seguii. Risalì rapida lungo tutti i viali di circonvallazione lasciandosi alle spalle il centro della città. Giunta all’altezza degli archi della stazione ferroviaria diminuì notevolmente l’andatura e prese a girare lentamente intorno al piazzale, sostando qua e là nei posteggi. Questi giri durarono pochi minuti. L’orologio della stazione segnava le 0,40 all’arrivo della Chevrolet, scattarono quattro minuti, poi, dopo aver costeggiato lentissima il marciapiede, l'auto ripartì veloce in direzione delle colline. Alle 0,43, proprio quando la Chevrolet scivolava lungo l’orlo del marciapiede, a passi rapidi, nervosi e apparentemente disattenti, col naso all’insù a fiutare, e l’ombrello al braccio, dalle porte vetrate della stazione uscì Azerbagiàn, ladro e ricattatore. Lanciò un rapido sguardo nell’interno della Chevrolet, con quei suoi passi sventati passò dietro l’auto e attraversò spedito il piazzale senza voltarsi. Fu in quel momento che la Chevrolet ripartì verso le colline: un momento prima o un momento dopo il guidatore e Azerbagiàn non avrebbero potuto vedersi a meno che quest’ultimo non avesse camminato, cambiando la sua direzione, in modo da attraversare la strada all’auto. E fu il lampo di scimmia finta e svagata che vidi negli occhi di Azerbagiàn a persuadermi che anche lì, anche nell’interno della Chevrolet e anzi in tutti i suoi giri egli in qualche modo (quale non so) doveva avere la sua parte.

 

*Dario Borso, dopo essere stato docente di Storia dell'estetica al Politecnico di Milano, oggi insegna Storia della filosofia alla Statale di Milano. Tra gli autori preferiti, curati a partire da puntuali traduzioni, ci sono Søren Kierkegaard, Paul Celan, Maurice Blanchot. Ma, se il suo professore (di cui poi è stato per anni assistente) fu a Milano il vicentino Mario Dal Pra, di cui ha curato anni fa per l'Istituto Nazionale della Resistenza "La guerra partigiana in Italia" (Giunti editore), Dario Borso è anche cultore di letteratura e appassionato di Goffredo Parise e qui ne dà una prova.


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