Giornata della Memoria: assente il concetto governativo di lealtà verso la Shoah. Torni il "Giorno della Memoria della Shoah"
Sabato 27 Gennaio 2018 alle 12:28 | 2 commenti
Tutto quello che mi hanno insegnato sui campi di concentramento, su quel signore che mia nonna incontrava al Caffè la Triestina di Vicenza fino ai primissimi anni sessanta e nonostante il tempo passato, lo ricordo ancora, su quei tre signori jugoslavi nascosti temporaneamente nel fienile del nonno, sull'oro venduto per aiutare la Delasem, sui pochi averi di Samuele nascosti dentro una tomba del Cimitero Ebraico, su parenti, amici, conoscenti morti nei campi di sterminio o su chi pelle e ossa è riuscito a tornare, tutto ciò ha perso il suo smisurato valore.
Adesso sono arrivati quelli del "27 Gennaio di ogni anno", quelli che ci adorano per un giorno e ci detestano tutto l'anno, spesso persone con il pelo sullo stomaco che devono parlarne a tutti i costi, non per far valere il ricordo della Shoah, ma per far valere la loro presenza. Ci hanno portato via tutto: la bandiera della brigata ebraica, i dolori, le emozioni e la storia, che vogliono cambiare. Nelle scuole per parlare di memoria io non ci vado più da almeno dieci anni, perché ci si trova di fronte a disinformazione, disuguaglianza e al pro palestinese che con rabbia ti affonda un coltello nel cuore e ti dice "Ma perché gli ebrei, che sono state vittime, ora fanno la stessa cosa con i palestinesi?", tra gli applausi degli imbecilli e il silenzio assenso degli insegnanti.
Sono così ignoranti che probabilmente non sanno che il Gran Muftì di Gerusalemme, Amin all'Husseini (zio di quel puro uomo chiamato Arafat, capo spirituale dei musulmani palestinesi) e il leader nazista Adolf Hitler erano legati da una pericolosa amicizia e per farla breve, tralasciando un pezzo di triste storia, nel 1943 il caro Amin all'Husseini, organizzò personalmente un esercito nazista composto di centomila soldati musulmani bosniaci per procedere allo sterminio della popolazione serba cristiana, ebraica e zingara.
La storia va studiata e non improvvisata, e in questo specifico non si possono sovrapporre periodi ed epoche, contaminare fatti e dolori perenni, a misura di un partito o dell'altro.
Giornata della memoria, diciamo così, ma è il Giorno della Memoria. Penso alla manifestazione a Milano del 9 dicembre 2017, in Piazza Cavour pro Palestina e all'improvviso parte un coro di partecipanti: Ya Yahid, Jaish Muhammad saya, ovvero "udite Ebrei, l'armata di Maometto ritornerà ". Ben otto volte viene pronunciando l'istigamento allo sterminio degli ebrei, tra l'ignoranza e l'indifferenza delle Autorità e senza nessuna pubblica scusa.
Qualche giorno prima della Giorno della Memoria (la coincidenza mi rende triste) Liliana Segrè, grande donna, viene nominata senatrice a vita. Non metto in discussione il merito della sua nomina, ma il periodo di attribuzione, perché non è stato fatto a giugno, ad esempio? Manca il concetto governativo di lealtà verso la Shoah, la Shoah troppo spesso perde il valore storico ed umano della Memoria, salvo a rivalutarlo quando fa comodo, ovvero intorno al 27 gennaio.
La morte di più di sei milioni di ebrei diventa talvolta imbuto di mere opportunità politiche, spesso dimenticando che se l'Europa ha smesso da tempo di vergognarsi dei Campi di Sterminio, l'Italia non è da meno. Nell'eccelsa Torino mercoledì 24 gennaio si è tenuta una conferenza, presso il Main Hall dell'università , "giornata della memoria 2018 antifascista e antisionista". Riporto esattamente quanto si legge dai manifesti appiccicati in vari muri della capitale Piemontese "documenti e analisi sulle responsabilità dei sionisti allo sterminio degli ebrei durante la II guerra mondiale e sul suo utilizzo postumo a fini politici".
E' un tentativo autorizzato di banalizzare la Shoà . Politici e cittadini che permettono simili manifestazioni non possono fregiarsi dell'onore di partecipare al Giorno della Memoria e non so con quale coraggio possano inchinarsi di fronte alle vittime o di chi le rappresenta. A Liliana Segrè e Sami Modiano classe 1930, a Piero Terracina classe 1928, sopravvissuti ai campi di sterminio e tuttora viventi, agli altri che non conosco, vi voglio bene e come si dice in Israele campate almeno fino a 120 anni, perché il giorno in cui voi non ci sarete più, non ci sarà più memoria. A Vicenza mai nulla è stato fatto per restituire forma, luce e sentimento alla Memoria, né con Hüllweck, né con Variati!
Voglio concludere con una frase del libro, edito nel 2014 di Elena Loewenthal "Contro il Giorno della Memoria" che chiama GdM, come la sigla di un prodotto di consumo: "Io rinnego il GdM: non mi appartiene, non gli appartengo, non riguarda me e la mia, di memoria. La mia memoria non comunica: è soltanto la avvilente consapevolezza di una distanza minima, ma insormontabile. Io che sono nata poco dopo che tutto era finito, che sono vissuta circondata da quel passato, da quei ricordi - per lo più pestati sotto il tallone del silenzio, non per rimuovere quel passato, ma perché per tornare a vivere era fondamentale non lasciarlo parlare, almeno per un po' di tempo - so per certo un'unica cosa, di quella memoria: che non potrò mai nemmeno lontanamente sentire quello che ha sentito chi è stato dentro quel tempo, quelle cose. Malgrado la mia vicinanza estrema e quotidiana, provo una frustrazione terribile che è la conseguenza di una distanza minima, ma insormontabile" [p. 90].
L'unica soluzione, a mio avviso, a questo pensiero è che il Giorno della Memoria, torni a essere il "Giorno della Memoria della Shoah", con tutti i segreti e gli atroci crimini ancora da svelare, con la commemorazione di quelli già accaduti e provati, con il ricordo delle vittime e soprattutto con autenticità e anima che nel corso degli anni sono state smarrite nei meandri delle partecipazioni politiche-partitiche e personali. Altrimenti è meglio fare come faccio io: Io non ho bisogno del 27 gennaio per ricordare.
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Ho visto altre impiccagioni, ma non ho mai visto un condannato piangere, perché già da molto tempo questi corpi inariditi avevano dimenticato il sapore amaro delle lacrime.
Tranne che una volta. L'Oberkapo del 52° commando dei cavi era un olandese: un gigante di più di due metri. Settecento detenuti lavoravano ai suoi ordini e tutti l'amavano come un fratello. Mai nessuno aveva ricevuto uno schiaffo dalla sua mano, un'ingiuria dalla sua bocca.
Aveva al suo servizio un ragazzino un pipel, come lo chiamavamo noi. Un bambino dal volto fine e bello, incredibile in quel campo.
(A Buna i pipel erano odiati: spesso si mostravano più crudeli degli adulti. Ho visto un giorno uno di loro, di tredici anni, picchiare il padre perché non aveva fatto bene il letto. Mentre il vecchio piangeva sommessamente l'altro urlava: «Se non smetti subito di piangere non ti porterò più il pane. Capito?». Ma il piccolo servitore dell'olandese era adorato da tutti. Aveva il volto di un angelo infelice).
Un giorno la centrale elettrica di Buna saltò. Chiamata sul posto la Gestapo concluse trattarsi di sabotaggio. Si scoprì una traccia: portava al blocco dell'Oberkapo olandese. E lì, dopo una perquisizione, fu trovata una notevole quantità di armi.
L'Oberkapo fu arrestato subito. Fu torturato per settimane, ma inutilmente: non fece alcun nome. Venne trasferito ad Auschwitz e di lui non si senti più parlare.
Ma il suo piccolo pipel era rimasto nel campo, in prigione. Messo alla tortura restò anche lui muto. Allora le SS lo condannarono a morte, insieme a due detenuti presso i quali erano state scoperte altre armi.
Un giorno che tornavamo dal lavoro vedemmo tre forche drizzate sul piazzale dell'appello: tre corvi neri. Appello. Le SS intorno a noi con le mitragliatrici puntate: la tradizionale cerimonia. Tre condannati incatenati, e fra loro il piccolo pipel, l'angelo dagli occhi tristi.
Le SS sembravano più preoccupate. Più inquiete del solito. Impiccare un ragazzo davanti a migliaia di spettatori non era un affare da poco. Il capo del campo lesse il verdetto. Tutti gli occhi erano fissati sul bambino. Era livido, quasi calmo, e si mordeva le labbra. L'ombra della forca lo copriva.
Il Lagerkapo si rifiutò questa volta di servire da boia.
Tre SS lo sostituirono.
I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole. I tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi.
- Viva la libertà! - gridarono i due adulti.
Il piccolo, lui, taceva.
- Dov'è il Buon Dio? Dov'e? - domandò qualcuno dietro di me.
A un cenno del capo del campo le tre seggiole vennero tolte.
Silenzio assoluto. All'orizzonte il sole tramontava.
Scopritevi! - urlò il capo del campo. La sua voce era rauca. Quanto a noi, noi piangevamo.
- Copritevi!
Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora...
Più di una mezz'ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti.
Dietro di me udii il solito uomo domandare:
- Dov'è dunque Dio?
E io sentivo in me una voce che gli rispondeva:
- Dov'è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca...
Quella sera la zuppa aveva un sapore di cadavere.
[Elie Wiesel]