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Eccidio di Schio, un dramma tra memoria e superamento.

Di Alessandro Pagano Dritto Martedi 11 Febbraio 2014 alle 11:50 | 0 commenti

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Sabato 1 febbraio il giornalista e documentarista Enzo Antonio Cicchino ha presentato al Teatro Civico di Schio il suo ultimo libro, scritto in collaborazione con Roberto Olivo: Correva l’anno della vendetta. Schio, Oderzo e altri eccidi del dopoguerra (Milano, Mursia, 2013, pp. 380, 18 euro). Buona parte del libro è dedicata all’eccidio avvenuto nelle carceri mandamentali del paese – ora biblioteca civica - nella notte tra il 6 e il 7 luglio 1945, quando un gruppo di partigiani uccise nel complesso 54 detenuti: 47 morirono subito, gli altri nei giorni e nelle settimane seguenti.

Nonostante i processi, i libri e i documentari realizzati, un patto di concordia che ha coinvolto anche le autorità comunali e alcune lapidi in relazione col fatto, l’eccidio di Schio rimane una questione aperta per la città: per la storia, perché non tutti i dettagli sono stati chiariti, e per la memoria ancora contestata.

VicenzaPiù ha intervistato Enzo Cicchino, autore anche, sullo stesso argomento, di uno dei documentari realizzati: Un paese diviso, del 1994.

 

Il sottotitolo del suo libro è molto inclusivo: Schio, Oderzo e altri eccidi del dopoguerra. Come mai questa scelta geografica ampia?

 

Ogni evento è sempre strettamente collegato alla dimensione collettiva delle atmosfere politiche, umane, spirituali connesse a un certo periodo. Ciò che accade a Schio oggi non è avulso da ciò che accade a Milano, a Roma, in Turchia o in Sud Africa: viviamo in un villaggio globale più o meno inclusivo, da sempre. Quando in una casa succede un delitto, è come se si creasse un’energia emotiva che poi defluisce tutto intorno. Io mi immagino l’Italia del 1945, ma anche quella degli anni seguenti, più o meno fino al 1949, come uno spazio con tanti vulcani che zampillano e questi vulcani sono le tragedie che si esprimono. Queste tragedie vanno in risonanza: io credo che quello che è accaduto a Schio sia accaduto anche perché di eventi simili, ognuno certamente declinato in modo diverso, ne accadevano tantissimi. In qualche modo questa armonizzazione del male, possiamo dire, era coerente al territorio, era nella natura delle cose, nelle atmosfere. I ragazzi che hanno partecipato a questo crimine, a Schio, l’hanno fatto anche perché prima era già successo altrove. Chi aveva fatto il partigiano, chi si era abbeverato di ideali rivoluzionari rischiava di essere portato a farlo.

 

Lei non è di Schio, ma è arrivato in questo paese dopo aver conosciuto quanto vi era successo. Quali vantaggi e quali svantaggi vede nell’occuparsi degli episodi drammatici di una comunità della quale però non si fa parte, quindi dall’esterno?

 

Il vantaggio fondamentale è che si è al di fuori delle parti, quindi si guarda dall’alto la realtà e si vedono in modo più netto i chiaro scuri. E poi si percepisce di più il complesso attrito che c’è tra le energie in campo, con le sue contraddizioni ma anche con le sue somiglianze, nonostante la pretesa diversità delle parti. Fino al 25 luglio 1943 tutti gli Italiani, fatta eccezione per una ristretta minoranza, erano fascisti. Nel 1945 noi abbiamo a che fare con ex fascisti divenuti repubblichini ed ex fascisti divenuti partigiani. L’humus culturale dal quale entrambe le parti erano nate era stato lo stesso, ma dopo l’8 settembre da una parte o dall’altra c’era stato chi aveva scelto una strada perché l’aveva voluta, chi aveva scelto la stessa strada perché non ne aveva altre possibili, chi invece era stato costretto perché in quel momento stava combattendo accanto ai tedeschi. Venendo dall’esterno è più facile abbracciare questo elemento comune alle due fazioni, quando invece ci stai dentro sei sopraffatto dal privato, dalla storia di famiglia, dall’affetto diretto, dai traumi subiti, traumi che parlano di morte e di tradimento. Basta pensare al dramma, al conflitto che si crea, anche a distanza di tempo, già solo riflettendoci. La storia umana, in special modo dei conflitti, va vista in questi termini, se no la si perde: le armi sono l’aspetto estremo, ma il conflitto è una dimensione dell’uomo che si esprime in ogni momento e che in casi estremi diventa guerra. Le stesse ideologie nascono da argomenti che si contrappongono, che non collimano e che collidono. Schio, visto dall’esterno, non può non essere affrontato anche in questi termini. Gli svantaggi possono invece essere nell’incomprensione; risulta difficile ammettere che dopo cinquanta, sessanta, settant’anni certi drammi non sia ancora possibile risolverli, diluirli e sorpassarli.

 

Lei ha detto alla presentazione del suo libro che «il passato deve essere metabolizzato attraverso l’amore». Non c’è il rischio che l’amore sia troppo irrazionale per metabolizzare, che ci voglia qualcosa di più razionale?

 

In senso assoluto, quanto ho detto sono convinto sia la verità. Bisogna però capire, in termini relativi, come raggiungere questo. Tra cento anni, quanti matrimoni ci saranno stati tra discendenti delle vittime e discendenti dei carnefici? Io penso moltissimi. A un certo punto specchiandosi nell’altro ognuno ritrova il proprio dramma. E in questo incontro nasce la catarsi, nasce l’oblio, nasce l’accettazione; è la vita, il suo equilibrio naturale applicabile anche all’animo umano. Anche a Schio tutto questo avverrà in modo naturale senza intenzione, avverrà attraverso l’oblio. La tragedia diventerà, come la guerra di Troia, patrimonio della città e anzi, diventerà anche elemento di distinzione e di identità. L’eccidio sarà parte della storia della comunità e quello che adesso è debolezza, poi diventerà forza. L’oblio diventerà metabolizzazione del dolore.

 

Nel suo libro lei definisce la categoria dei parenti delle vittime «una categoria scomoda» (p. 69) perché spesso è stata guardata con un senso di vergogna o di ingiustizia. Con simili sfumature, però, Valerio Caroti le spiegò anche la reticenza a parlare di quei partigiani responsabili dell’eccidio (p. 107). Sono entrambe «categorie scomode»?

 

Sono scomode perché sono le parti vive del conflitto e non sono collimabili; sono come le zolle terrestri che si scontrano durante il terremoto, non hanno quel cuscinetto umano che cerca di far riflettere, di soffermare, creare autocoscienza. Alla presentazione non ha assistito nessuna delle parti direttamente coinvolte nell’eccidio, di coloro che l’hanno vissuto; se ieri sera fossero state presenti queste persone la chiacchierata avrebbe probabilmente usato termini diversi. L’assenza dei diretti coinvolti rende più facile questo superamento, il parlarne in modo più libero, anche tenendo conto delle ragioni umane in termini globali, non nel contingente. Se qualcuno mi fa un torto, per capirci, per quanto una terza persona mi spieghi in termini generali, universali, il torto, a me e solo a me rimarrà sempre la concretezza del torto subito, del trauma vivo. Non è insomma possibile pretendere psicologismi e sociologismi da chi riceve un torto gravissimo. Inoltre bisogna abituarsi all’idea che ogni parte ha le sue ragioni passionali, che vanno lette e capite. Nel leggere e capire bisogna però non dimenticare che la notte dell’eccidio si incontrarono da una parte uomini che hanno ucciso e non avevano alcun diritto o giustificazione per farlo, dall’altro vittime inermi che per la quasi totalità non avevano commesso alcun che, tant’è che erano stati emessi ordini di scarcerazione; i pochissimi ai quali era addebitabile una colpa, questa non era tale da richiedere una pena così gratuita ed efferata.

 

Cosa ne pensa del patto di concordia? Ritiene abbia avuto successo?

 

La vicenda l’ho seguita da lontano, sui giornali. Penso sia stato un buon tentativo, una fase intermedia decisamente utile perché ha creato un dialogo tra le due parti. Non credo sia riuscita del tutto, ma è stata la prima fase importante. Come quando dopo un armistizio le parti, pur guardandosi in cagnesco, si mettono attorno a un tavolo e decidono che si devono mettere d’accordo. È stata superata una fase. Anche la presentazione del libro, si voglia o no, avrà penso degli effetti positivi. Mi dicevano che è la prima volta che si parla ufficialmente dell’eccidio in pubblico; se è così, è possibile che, attraverso un esterno, ci sia stata una possibilità in cui in molti si sono ritrovati. La situazione si può risolvere, un po’ alla volta, attraverso questi eventi, ma di fondo si risolverà attraverso i matrimoni dei singoli. Lo dico senza retorica, ma seguendo la storia: i popoli che si sono scontrati, gli invasori, si sono metabolizzati con gli invasi e hanno creato nuove civiltà nel momento in cui si sono mischiati e le culture sono diventate una.

 

In tutto questo non c’è il rischio che si risolva tutto sul piano individuale, ma sul piano collettivo la ferita rimanga?

 

Sì, ma diventa un valore, un altare intorno a cui tutti si riconoscono e intorno a cui catarticamente rivivono il dolore che è comune. Sono necessari comunque entrambi i livelli, quello individuale e quello collettivo dell’elaborazione culturale: i libri devono riflettere sulla storia e le famiglie incontrarsi, nel senso biblico del termine.

 

Le diverse iniziative hanno incontrato però delle riserve da ambo le parti: gli interventi di Ezio Maria Simini e Ugo De Grandis da un lato, la parte dei parenti che si rifaceva a Roberto Plebani dall’altro. Che idea si è fatto di queste contestazioni?

 

Una delle ragioni che rende farraginosa la catarsi è il fatto che entrambe le posizioni sono sfruttate politicamente – politica in senso lato, è ovvio - e servono a tenere in vita degli interessi precisi. Ogni parte fa si che non si crei un cuscinetto di discussione, ma resti compatta. In generale, coloro che politicamente si contrappongono, nel privato spesso hanno superato la contrapposizione. Ma la politica è fatta di contrasti, si fa sì che la volontà e i desideri di una parte restino precisi e legati a sé: si creano aree di interesse politico. Generalizzando e semplificando, l’impressione che se ne ha è che l’area ideale di riferimento dei parenti delle vittime sia quella di destra, quella di chi invece si rifà alla Resistenza, di sinistra. E all’uomo politico gestire questa dualità è utile. Questo ovviamente non inficia le persone sul piano individuale: io per esempio, durante il lavoro per il documentario, ho avuto il modo di conoscere Simini e posso dire che le cose che diceva avevano una loro plausibilità; come ho detto alla presentazione, Simini mi diede una testimonianza precisa, aperta, schietta e rispettabile.

 

Nel suo libro, lei parla di «funzione catartica» (p. 158) degli omicidi post Liberazione, utili a uccidere dentro di sé il fascismo con cui si era cresciuti. Paragona poi la violenza del dopoguerra con quella repubblicana dell’ultimo periodo bellico (p. 239, per esempio). Non ritiene ci sia il rischio di dare una visione binaria e semplicistica della Resistenza come semplice conflitto tra comunisti e fascisti?

 

Questo per noi che abbiamo scritto il libro è stato uno spunto di riflessione, non una scelta così categorica. Non abbiamo inteso fare un’operazione esaustiva, ma dare un compendio delle informazioni raccolte, così che ciascuno potesse farsi una sua idea.

 

Considerando le fonti della narrazione del periodo resistenziale, lei condanna in modo anche esplicito il filone cosiddetto «revisionista» e dice che la storiografia dei vinti «inquina la verità altrettanto e forse più di quella dei vincitori» (p. 7). Eppure lei cita e usa autori come Giampaolo Pansa, Giorgio Pisanò, Bruno Vespa, Antonio Serena, che sono considerati più o meno idealmente vicini ai vinti. Non ritiene possa sembrare una contraddizione?

 

Questo è un libro scritto a quattro mani e dà spazio quindi anche alle posizioni del mio coautore Roberto Olivo. In generale rimane però un fatto: a monte si è tappata la bocca ai vinti mettendoci palate di terra, i vinti hanno fatto prima la stessa cosa ai vincitori, durante la guerra. I due gesti sono abbastanza simmetrici, con l’unica differenza che i vinti lottavano per la causa sbagliata, i vincitori per la causa che alla fine è risultata essere quella giusta. Dico «è risultata», attenzione, nel senso che dirlo a posteriori è una cosa, ma sul momento, armi in mano, nessuno può essere consapevole fino in fondo della ragionevolezza della propria lotta: molto dipende infatti anche  dal progetto di chi questa lotta la dirige e la gestisce e dalle sue direttive. In ogni caso, quando cinquant’anni dopo i vinti hanno finalmente avuto la parola, giocando sull’oblio e su come il ricordo in qualche modo alteri la realtà, l’hanno forzata dando un tono assolutorio o banalizzante a certi fenomeni. Questo è un dato di fatto, cioè che la valutazione dell’emotività storica ha avuto pesi diversi secondo chi l’ha scritta: nella narrazione l’emotività prevale sull’oggettività, essendo l’emozione una lente molto più spinta, e rimodella le cose.

 

Dopo la realizzazione del suo documentario, nel 1994, sono stati pubblicati alcuni libri sull’eccidio di Schio: Silvano Villani, che comunque ebbe già allora modo di visionare, Simini, De Grandis, Plebani. Questi nuovi libri hanno cambiato la sua percezione dell’eccidio, di quello che è avvenuto? Rifarebbe allo stesso modo il documentario o cambierebbe qualcosa?

 

No, non cambierei nulla di sostanziale: forse, ecco, lo rifarei utilizzando ancora gli attori, ma evitando la spettacolarità dei mezzi. Per quanto riguarda i libri, invece, credo che il loro merito sia stato quello di dare maggior definizione a qualcosa che prima appariva più sfumato, ma non mi sembra ci siano stati argomenti nuovi tali da far cambiare l’idea che mi ero fatto. Inoltre ha trovato spazio in questi libri qualcosa che a suo tempo si borbottava ma non era stato scritto, per esempio le responsabilità di qualcuno degli arrestati.

 

Nel libro lei parla di una nuova stagione aperta, riguardo alla percezione dei delitti post resistenziali, da un articolo di Otello Montanari sul Resto del Carlino del 29 agosto 1990. Ritiene che anche il suo documentario possa definirsi figlio di quella stagione? Quella stagione crede che continui ancora oggi o oggi vi sono delle differenze?

 

La caduta del muro di Berlino fece crollare alcune reticenze e alcuni temi furono così affrontati in modo più inerente ai fatti, in campo televisivo come in campo editoriale. Noi risolvemmo la situazione buttando sul tavolo alcuni fatti che offrivano la possibilità di fare un’inchiesta o comunque materiali documentali. Io penso che con la crisi del 2008 si sia però chiusa un’epoca. Penso sia assodato che nel grosso pubblico i fatti relativi al fascismo e alla sua fine siano in qualche modo ridefiniti: ognuno sa che alcuni fatti sono andati diversamente dalla vulgata ufficiale presente nei libri di scuola fino alla metà degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Adesso la mia impressione è che la gente cominci a essere stanca, il presente prevale sul passato: la gente ha paura di non riuscire a pagare il mutuo, di perdere la casa, di perdere il lavoro, le urgenze del presente prevalgono fortemente sul passato.

 

Uno dei punti più controversi della tradizione dell’eccidio di Schio – tanto che lei stesso gli riserva un intero capitolo del libro - è quello del partigiano Germano Baron «Turco»: la memoria in relazione all’evento è stata talmente contestata da passare persino attraverso il verdetto di un processo che ne ha sancito la completa estraneità. A proposito della storia di questo partigiano, poi, lei ha detto alla presentazione che «è degna di un’opera a metà tra Sofocle e Shakespeare». In generale, che idea si è fatto di tutti quei personaggi che, nei vari ruoli assunti, sovrastano gli altri nella narrazione dell’eccidio? Igino Piva «Romero», per esempio, Ruggero Maltauro «Attila», Valentino Bortoloso «Teppa», Pietro Bolognesi, Giulio Vescovi, Mario Plebani o lo stesso «Turco» che pure ne è risultato storicamente estraneo.

 

Che per paradosso, nel contesto ristretto, sono diventati dei personaggi mitici, ognuno dei quali rappresenta un carattere in modo assai sfaccettato; rappresentano, con le loro diversità, il prisma della personalità umana. Questo è un arricchimento del patrimonio dell’immaginario che si utilizza quando avviene la catarsi e sono stati superati gli eventi, quando non c’è più l’odio e il fatto storico è stato metabolizzato. Allora è facile che attraverso l’individuazione di questi caratteri si possa costruire il teatro. In ogni tragedia un attore assume una personalità diversa anche perché è in contrasto con gli altri.

 

Se lei dovesse dare un parere sul punto in cui si trova Schio a fare i conti con l’eccidio?

 

Facessimo da uno a cento, io comincerei a dargli un voto alto, un settanta. Rimane un trenta per cento ancora da elaborare. E mi sento di dire che se il panorama politico diventa ancora più sfumato e l’opposizione tra destra e sinistra si liquefa, sparisce, secondo me è un ulteriore vantaggio. Sono convinto che quello che ha irrigidito il sistema delle dinamiche sociali sia stata la divisione del mondo in due blocchi, che ha provocato l’interesse nel gestire l’area elettorale.


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