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Zanettin interviene sulla istituzione della commissione bicamerale per le riforme

Di Redazione VicenzaPiù Martedi 9 Luglio 2013 alle 17:11 | 0 commenti

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On. Pierantonio Zanettin, PDL - Quella che stiamo vivendo è davvero una occasione storica per dare corso a una profonda revisione della forma di Governo del nostro Paese. È una riforma, peraltro, di cui si parla da oltre 30 anni. Possiamo davvero farla questa riforma, in questa stagione per certi versi straordinaria, con una maggioranza di larghe intese, l'unica resa possibile dal risultato elettorale.

Ci si ostina a definire strana questa maggioranza, ma essa è strana solo in Italia, e non certamente in Europa dove, invece, le larghe intese sono sperimentate senza scandalo ogni qual volta è necessario varare riforme importanti che, come tali, richiedono ampia condivisione.

Questa maggioranza ha, per una singolare congiuntura astrale, da una parte la necessità di varare queste riforme, a pena di perdere credibilità e la propria ragione di essere e, dall'altra, anche la forza per vararle, sulla spinta forte di cambiamento che sale dal Paese. Guai, quindi, a perdere questa irripetibile occasione.

La Commissione dei 40 o, meglio, dei 42 (la cosiddetta bicameralina), prevista da questo disegno di legge costituzionale, ci consentirà di accelerare i tempi di varo della riforma modificando la procedura prevista dall'articolo 138 della Costituzione. È bene che essa abbia solo carattere referente e non redigente. È bene che garantisca la centralità del Parlamento in questo percorso riformatore, rispettando lo spirito dei padri costituenti. È bene che preveda, a certe condizioni, un referendum costituzionale, anche nell'ipotesi di approvazione con maggioranza superiore ai due terzi.

Ben diverso, invece, sarebbe stato il nostro giudizio sulla convenzione che, per come era stata ipotizzata in una certa fase del dibattito politico, avrebbe svuotato di ruoli e funzioni il Parlamento.

In questa discussione sulle riforme, voglio oggi introdurre un argomento che, a mio giudizio, è stato del tutto trascurato nel dibattito pubblico, accademico e mediatico e, quando è stato introdotto, è stato subito espulso. Mi riferisco al considerare la Costituzione come un fattore di competitività economica di un Paese.

Ricordiamo che circa il 35 per cento del nostro enorme debito pubblico è ancora in mano ad investitori esteri. Ci piaccia o meno, il rifinanziamento del nostro debito, il nostro rating, il famigerato spread, il nostro benessere e il nostro sviluppo futuro dipendono dall'opinione che di noi si ha nel resto del Paese. Ci piaccia o meno, anche le nostre istituzioni, il nostro modo di lavorare in Parlamento e la nostra forma di Governo non si sottraggono a tale giudizio.

Le chiedo, allora, ministro Quagliariello, se una Corte costituzionale come la nostra che, nell'ordine, cancella il contributo di solidarietà sui redditi più alti; dichiara illegittimo l'articolo 19 dello Statuto dei lavoratori sulla rappresentanza nelle RSU; e, da ultimo, boccia la cancellazione delle province, costituisca un elemento di competitività del nostro sistema Paese? O, invece, è soltanto un fattore di rigido e burocratico conservatorismo che poco si adatta alle esigenze del momento?

Alla luce di tali decisioni, una società multinazionale è indotta a investire le proprie risorse in Italia o, semmai, a delocalizzare i residui investimenti ancora presenti nel nostro Paese? Non dobbiamo poi stupirci se l'Italia, secondo l'International Institute for Management Development di Losanna, si colloca nel 2013 solo al quarantaquattresimo posto nel mondo nella classifica della competitività. Qualche settimana fa è stato pubblicato un report della banca d'affari JpMorgan, che ha destato grande scandalo. Cosa ha detto di così sconvolgente la banca JpMorgan?

Lo cito testualmente: «Quando la crisi è iniziata» - allude alla crisi economica - «era diffusa l'idea che questi limiti intrinseci avessero natura prettamente economica (...). Ma col tempo è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica. I sistemi politici dei Paesi del Sud (d'Europa), in particolare le loro Costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell'area europea».

Contro questi giudizi, immediate levate di scudi, interrogazioni parlamentari, commenti sarcastici dei soliti commentatori benpensanti, conformisti e politicamente corretti. Ma tali reazioni sono solo la prova evidente del provincialismo e dell'autoreferenzialità dei nostri dibattiti. In realtà, gran parte degli argomenti esposti, al di là di taluni evidenti eccessi di critica alla tutela del lavoro e delle fasce deboli, a giudizio di chi parla, sono largamente condivisibili.

È vero che la nostra Costituzione è stata varata nel dopoguerra e scontava la diffidenza reciproca del PCI e della DC. È vero che un sistema di pesi e contrappesi, figlio di un'altra epoca, ha reso la nostra democrazia incapace di prendere decisioni, di adeguare il Paese ai mutati contesti politici, economici e demografici.

È vero che ne sono scaturiti esecutivi deboli. È parimenti vero che il nostro regionalismo, ad eccezioni di alcuni rari, anzi rarissimi, esempi virtuosi, si è rivelato fonte di sperperi di risorse e corruzione, esprimendo in troppe occasioni una classe dirigente assai mediocre.

È vero che nel nostro sistema il consenso elettorale viene troppo spesso ottenuto con pratiche clientelari e che questo poi impedisce alle forze politiche destinatarie di questo consenso, una vera azione riformatrice.

È chiaro pertanto per quali motivi la nostra Costituzione, in alcune sue parti, ormai appare superata e a quali obiettivi deve tendere la riforma. Lasciamo, quindi, da parte i dibattiti inconcludenti. Variamo subito, onorevoli colleghi, questa «bicameralina», diamoci tempi certi e mettiamoci al lavoro.

Forse, così facendo, recupereremo un po' della credibilità perduta agli occhi dei cittadini, e il nostro Paese recupererà anche un po' una immagine all'estero.


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