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La Voce del Sileno, Marco Ciuro: "Lo sguardo della Carità - Lo sguardo della Giustizia"

Di Emma Reda Martedi 6 Dicembre 2016 alle 20:00 | 0 commenti

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Ospitiamo il secondo articolo de La Voce del Sileno, una rivista on line - spiega il suo ideatore e coordinatore Italo Francesco Baldo, nostro opinionista e uomo di cultura - che "intende coinvolgere tutti coloro che hanno a cuore la ricerca filosofica, culturale e in modo indipendente la propongono per un aperto e sereno confronto dove vi sia sempre l'autentica tolleranza, quella che si chiede sempre se coloro che non hanno i nostri stessi pensieri non abbiano in realtà ragione loro". "Si è scelto il nome della rivista - spiega Baldo - , richiamando al Sileno, ossia al vecchio bonario, che si diceva padre dei satiri e balio di Dioniso, che, ancor fanciullino, gli era stato affidato dalle ninfe perché l'educasse. Di questo Sileno si raccontò che fosse figlio di una ninfa e di Pan e re di Nisa".

 

E, conclude la sua lectio il coordinatore de La Voce del Sileno - costui "ricevuto in custodia il fanciullo Dioniso, aveva accompagnato il suo allievo nell'Attica, ivi soggiornando qualche tempo con lui, ospite di Pandione, sull'Acropoli. Di Sileno si faceva non solo un demone amico agli uomini, genio tutelare della casa, protettore dei fanciulli, ma anche il sapiente e il maestro per eccellenza fra gli dei, del quale erano note la saggezza e la virtù profetica, che esercitava in stato di ebbrezza...culturale s'intende".

E allora, dopo il suo "Filosofia e amore, qualche appunto" il coordinatore de La voce del Sileno, Italo Francesco Baldo, ci concede di pubblicare

"Lo sguardo della Carità - Lo sguardo della Giustizia"
di Marco Ciuro

La complessità dell'esperienza umana impone a noi che l'osserviamo, forse un po' distrattamente, di tenere conto di tutti i possibili ambiti in cui questa si dipana e di tutte le possibili implicazioni che dall'atto umano possono sorgere. Così, il comportamento giudicato sfavorevole da una norma positiva non genera solamente una responsabilità giuridica ma anche una responsabilità morale in chi lo pone in essere. Non si tratta di valutazioni separate bensì, pur nelle innegabili distinzioni di valori e di metodo, di guardare a quel reticolo di rapporti tra diritto e morale, tra diritto e teologia, per meglio comprendere non solo il diritto nella sua dimensione eteronoma ma la stessa persona umana nella sua vocazione collettiva a relazionarsi con l'altro per riconoscere quel "tu" che s'incontra come prossimo e diviene mio prossimo. Si passa, quindi, da "me" e "te" al "noi" ("nostridad" di Ortega Y Gasset)

Questo intarsio di considerazioni muove però da una premessa che da tempo viene messa in discussione se non addirittura rifiuta a priori, come un retaggio di cui il mondo diventato adulto - secondo la celebre espressione di Bonhoeffer- non ha più bisogno, ossia il fatto che il diritto non sia "causa sui" bensì tragga la propria origine, la propria giustificazione da qualcosa d'altro, che lo preceda logicamente ed ontologicamente, ossia la legge naturale, norma dell'agire pratico (lumen rationis) fondata sulla stessa natura umana, inclinata al raggiungimento del proprio fine. È la tesi giusnaturalistica che conosce oggi pochi ma strenui difensori. Tabuizzando la legge naturale, obliando il legame tra diritto e morale, tra diritto e teologia, la prospettiva che ci si presenta è una deriva nichilista del diritto, peraltro già in atto. A guardare bene, però, il problema sta a monte, perché la concezione del diritto e delle sue categorie si fonda sulla concezione dell'uomo. Ad un'antropologia immanentista non potrà che attagliarsi un normativismo e un formalismo puro ove la dimensione trascendente dell'uomo viene messa da parte; il dogma della purezza del diritto predicato da Hans Kelsen, da Hart (per citare i più noti) che a loro volta muovono dal pensiero positivista di Austin, non tollera - a pena di scomunica! - ingerenze provenienti da qualsivoglia scienza che non sia quella giuridica. Si giunge in tal modo ad una frattura tra il piano ontologico (Sein) e quello deontologico (Sollen): il diritto si cristallizza asetticamente nella norma e si identifica con essa; così facendo il diritto assume i connotati di un idolo, di un feticcio che viene adorato ma nella cui bocca - per richiamare i Salmi - non vi è respiro. Il contingente viene assolutizzato. Invece, ad un'antropologia aperta al Trascendente potrà seguire, un ordinamento giuridico fondato sul trittico "Legge eterna (ordine finalistico impresso da Dio nella creazione, nonché principio della Provvidenza e del Governo del mondo) legge naturale-legge positiva". => breve definizioni delle suddette.

Il giurista che condividesse queste premesse (il giusnaturalismo oggi: Finnis e Rhonheimer) o che almeno non le rifiutasse recisamente, potrebbe cogliere dalle opere di Misericordia delle suggestioni che possono significare il diritto in chiave anagogica, nel suo essere oggetto della Giustizia, per andare, così, alle radici della Giustizia e recuperare il perduto Sollen (il dover-essere).
Il punto focale è questo: molti dei termini che il legislatore utilizza - siano essi quelli propri del diritto civile, sostanziale o processuale, siano essi quelli del diritto penale - rimandano ad un piano prepositivo e pregiuridico di cui spesso ci si dimentica, e i guai che tale amnesia può procurare sono enormi.

Dare da mangiare al povero, vestire l'ignudo, visitare il carcerato, istruire l'ignorante, consigliare il dubbioso. Queste sono alcune delle opere di Misericordia corporali e spirituali. Il Catechismo della Chiesa Cattolica a proposito dell'elemosina afferma che questa è una testimonianza di Carità ed è anche una "pratica di Giustizia gradita a Dio" (CCC, 2447). Ad un primo sguardo potremmo dire che si tratta di sopperire a delle mancanze, sia sul piano materiale che su quello spirituale. Ma questo vorrebbe dire fermarsi alla superficie, al dato fenomenico. Un vuoto atto di evergetismo, che tanto ricorda la morale farisaica, è un atto che sopperisce a delle mancanze. Potremmo dire che è un atto giusto, che è un atto di un uomo giusto? Sfamare il povero, dissetare l'assetato: sono azioni oggettivamente buone. Ma non sono azioni di un uomo buono se non hanno come presupposto il riconoscimento dell'altro come persona (San Tommaso: "Persona significat id quod est perfectissimum in tota natura"). Il gesto vuoto, fatto tanto per fare, è annichilente, reificante, spersonalizzante. L'atto giusto - cioè informato da quella virtù che è la Giustizia - è l'atto con il quale io riconosco che all'altro spetta qualcosa, che gli è dovuto un qualcosa (debitum). Questa è infatti la definizione di Giustizia data dal giurista romano Ulpiano, ripresa da San Tommaso e consacrata anche nel nostro Catechismo: suum unicuique tribuere.
Il broccardo latino, parte dei precetti della giustizia secondo la definizione ulpianea ( Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi. Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere che campeggiano anche sulla facciata del Palazzo di Giustizia di Milano), evoca mirabilmente- con la consueta e lapidaria chiarezza di cui il latino è capace - i presupposti di un ordinamento giuridico che aspiri ad essere giusto: tali presupposti sono la relazione con l'altro e la condizione di parità formale tra gli uomini.

Iustitia est ad alterum: la giustizia (etimologia: è opinione diffusa che il termine iustum derivi dalla radice indoeuropea "jug" che significa legame stretto; in realtà si tratta solamente di una possibilità etimologica ma ha maggior credito filologico la derivazione dal vedico "yos" e dall'avestico "yaos" , termini che rimandano ad un contesto liturgico, dunque religioso, sacrale) ha a che fare con l'altro, con la vita di relazione sociale in cui l'uomo - animale politico - è quotidianamente inserito. Il riconoscimento della legittima spettanza, del diritto di ciascuno, presuppone logicamente ed assiologicamente il riconoscimento di quel "qualcuno" non come oggetto del diritto bensì come suo soggetto. Le derive filosofiche del materialismo non possono che contagiare lo stesso diritto, reificando l'uomo nella sua dignità sacra. La persona, diceva Rosmini, è "diritto sussistente" ed è in forza del suo statuto personale, metafisicamente fondato, che alla persona compete avere un suum, un proprium che l'ordinamento statale ha il dovere di difendere contro chi voglia negare questa proiezione spirituale dell'essere umano, che si sostanzia nell'affermazione di una propria progettualità nelle dinamiche interosoggetive di cui è costellata la società. Una società che disconosca l'apertura all'altro è una società chiusa in un individualismo solipsistico, destinata a ripiegare su sé stessa, senza futuro e senza carità.

Similmente - e siamo al secondo presupposto, quello della parità (e qui si può discutere se si tratti di parità solo formale o anche sostanziale) tra gli uomini - non può esservi giustizia sociale se non ammettendo la condizione di parità formale tra gli uomini. Il diritto privato, si insegna, si distingue dal diritto pubblico perché mentre quest'ultimo regola dei rapporti verticali, quelli tra Stato e cittadino, in cui il primo è gerarchicamente superiore al primo, il diritto privato regola i rapporti tra soggetti posti in posizione di formale parità e predispone, così, gli strumenti giuridici per regolare i rapporti tra le parti (i contratti) e i corrispondenti sistemi rimediali per eliminare le eventuali lesioni, ristorando il danno patito e ritornando alla situazione di paritaria uguaglianza (restitutio in integrum). La parità e l'uguaglianza predicati dal legislatore hanno qui carattere meramente descrittivo ma riesce comunque a trasparire quel sostrato assiologico (ossia valoriale) a cui non si può che rimandare: il riconoscimento dell'altro, come persona, soggetto di diritto e limite del diritto.

Questi due presupposti - il riconoscimento dell'altro e la condizione di uguaglianza - nel mondo ferito dalle conseguenze del peccato originale, vengono sovente disconosciuti sia sul piano teoretico (pensiamo alle leggi sull'interruzione volontaria di gravidanza o alle leggi sull'eutanasia, che permettendo la soppressione dell'essere umano negano il suo statuto personologico, degradandolo ontologicamente ad una forma infra-personale che non viene parificata ad altre più "degne) che su quello pratico, provocando una frattura nell'ordine della corrispettività. È il reato, la macula criminis: la condotta criminosa è al contempo rifiuto della legge della carità e della legge della giustizia: come peccato, offende Dio e abbruttisce la stessa dignità dell'uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, provocando una frattura nell'ordine della natura e in quello della Grazia.; come reato, provoca una frattura nell'ordinamento giuridico, giacché il comportamento delittuoso lede non tanto un singolo bene particolare che il legislatore ha ritenuto essere meritevole di tutela, bensì il concetto categoriale di Bene che informa lo Stato di Diritto. La ferita sociale provocata dal reato non colpisce solamente la vittima della condotta criminosa ma l'umanità tutta che si vede impoverita nella sua dimensione dialogica, in forza della quale l'altro va rispettato e difeso.

Il duplice danno arrecato alla legge della Carità e della Giustizia non può che esigere una duplice riparazione. La pena, come riproposizione della legge dell'equivalenza, mira a restaurare l'ordine infranto dal reato. Si tratta non solo del turbamento esteriore arrecato alla società dal reo, il quale vede repressa e punita la propria condotta, ma di affermare la possibilità di restaurare quelle dinamiche intersoggettive che costituiscono il cardine del vivere comune. L'ontologia della colpa fonda e giustifica l'ontologia della pena. La giusta pena dunque (chiaro che qui si potrebbe aprire un dibattito su quali siano i presupposti di una pena giusta..!) è in grado di sanare le ferite arrecate alla legge della Giustizia e alla legge della Carità: disvelando al condannato il disvalore intrinseco del proprio comportamento, la pena ricolloca nell'ordine cosmico il significato del bene leso, riproponendolo come valore in sé da riconoscere e tutelare, quale irradiazione del principio universale di Bene, che procede da Dio e si comunica all'uomo come regola di condotta; ma la pena, tendendo alla rieducazione del reo, afferma altresì che la colpa non annienta l'uomo definitivamente.


La pena, lungi dall'essere esclusivamente un patimento imposto dal potere statale in forza della sua autorità, racchiude in sé un processo veritativo che si schiude al reo: la condanna inferta manifesta al reo il disvalore giuridico e morale del suo contegno, che si concretizza nel rifiuto della dimensione interpersonale della società e dei valori sui quali essa si fonda. Da questa consapevolezza non può non scaturire una riflessione - per quanto minima - sul valore di ciò che è stato leso e l'insopprimibile bisogno di perdono e di riscatto. Tra le opere di misericordia corporali figura il visitare i carcerati: visitando il condannato si attesta la funzione riabilitativa della pena: è secondo giustizia, cioè, che l'omicida sconti la sua colpa in carcere, ma al contempo si attesta la legge dell'amore e del perdono, senza le quali avremmo un sistema meramente preventivo e repressivo e non, invece anche riabilitativo e rieducativo. Il reo non è un bandito della società e dalla società. La pena detentiva e la relativa sofferenza patita non sono il frutto di uno stato di eccezione anomico ma si pongono sotto l'egida del diritto e del principio di legalità (nullum crimen, nulla poena, sine lege). Colui che visita il carcerato riabilita il reo prima della legge degli uomini, perché ne riafferma la dignità sociale e lo statuto di cittadino. Come la colpa fonda e giustifica la pena, così la carità infonde umanità alla Giustizia.
La Giustizia allora, non è appannaggio della sola parte offesa, ma anche dello stesso reo il quale chiede che gli venga data la possibilità di rimediare alla propria condotta criminosa, sia sul piano giuridico-sociale che su quello spirituale. E se la prima istanza (quella giuridico-sociale) può essere soddisfatta dalla legge degli uomini, la seconda istanza (quella spirituale) esige l'umiliazione di fronte a Dio e l'accoglimento del Suo perdono che Egli non si stanca mai di dare all'anima pentita e penitente.
Il perdono, dice San Tommaso nella quaestio 60 della prima secundae, ristabilisce la relazione tra l'offeso e l'offensore. Proprio perché al primo (l'offeso) è riconosciuta la lesione del proprio diritto e al secondo (l'offensore) è garantita la possibilità di espiare la propria colpa secondo l'ontologia della pena, il perdono non si oppone alla giustizia ma garantisce ancora una volta le legittime spettanze (dunque, secondo giustizia). "Ex quod patet quod misericordia non tollit iustitiam, sed est quaedam iustitiae plenitudo".



Nella pena giuridica allora, secondo un'ottica retributiva, si coglie la relazione aletica tra Giustizia e Misericordia, imprescindibile paradigma che dovrebbe animare tutta la riflessione giuridica, specie quella penalistica: la giusta pena comminata, palesa al colpevole il disvalore intrinseco della propria condotta aggressiva. Tale condotta esteriore è tuttavia l'espressione manifesta di un male maggiore e recondito (epifenomeno) cioè il disordine morale del reo il quale rifiuta la relazione amicale con il prossimo, che non viene riconosciuto come tale, ma come un altro da sé, un nemico, un oppositore. Manca la Carità, perché manca l'amore. Manca la Giustizia perché all'altro non è riconosciuto quanto dovutogli, ossia la dignità e il valore che competono alla persona in quanto è persona.
La giusta pena può tentare di ricomporre questa relazione tra Misericordia e Giustizia perché al contempo punisce (ecco la reazione al male ingiusto, secondo Giustizia) e perdona, in quanto consente al condannato di reinserirsi nella società che ha ferito, poiché ha scontato il suo debito, riacquisendo la piena dignità sociale, perduta nel momento in cui ha delinquito.

Il discorso svolto sul significato e sulla funzione della pena, almeno per quello che è il mio modesto pensiero, postula de necessitate, che il sistema giuridico sia informato dalla Giustizia, vale a dire che abbia - in senso aristotelico - l'essenza della Giustizia. Pur nei limiti di questo mio intervento ritengo allora si debba dire qualcosa circa il rapporto tra diritto e giustizia, giacché essi non si identificano. Se possiamo dire con G. Del Vecchio che il diritto positivo è una sorta di "precipitato storico dell'idea di Giustizia", dobbiamo altresì notare che il diritto può non essere l'irradiazione della Giustizia, cosicché - mutuando il linguaggio della metafisica - la relazione tra i due può essere confusa o, addirittura, antinomica. La storia dell'uomo ci ha consegnato esempi in cui il "giusto positivo" è percepito dalla coscienza umana come stridente con un'idea di giustizia più elevata e trascendente ma comunque radicata e presente nell'animo umano come faro e direzione per l'agire pratico. Già Eraclito aveva ben inteso tale problema e adombrata la radicale questione del rapporto tra validità giuridica e Giustizia: nel frammento 23, il filosofo presocratico dice: "Gli uomini non capirebbero il nome di giustizia se non esistese già, ciò che tale nome esprime". Nell'Antigone, la tragedia sofoclea, emerge la distinzione tra il giusto secondo il diritto positivo (il dikaion katà nomon) e il giusto secondo natura (il dikaion katà fusin): espressione del primo è Creonte, il quale proibisce la sepoltura di Polinice, fratello di Antigone, caduto in battaglia; espressione del secondo è lei, Antigone la quale disobbedisce alla legge degli uomini, seppellendo il fratello Polinice, appellandosi alle "agrafta kasfalé theòn nomima" (leggi non scritte ed incrollabili degli dei). L'eroina sofoclea si fa corifea nel proclamare l'eterna validità delle leggi divine le quali sono sovraordinate alle leggi degli uomini ma si rendono presenti nell'animo umano come esigenza dell'essere di conformarsi a quei principi morali perennemente obbliganti che la coscienza non riesce a sopprimere se non contraddicendo la sua stessa natura e le sue stesse finalità. Prima della riflessione cristiana, dunque, specialmente quella tomista, emerge - al di là della terminologia - che non vi è soltanto un dovuto per legge positiva (nomikon, nomimon diakion) bensì - e primariamente - un dovuto secondo legge naturale, non scritta ma che si rende presente alla coscienza come obbligazione morale, come "dictamen rationis".
Giacché la legge positiva deve esprimere quella razionalità propria della natura umana non possiamo non affermare che la legge positiva contrastante con tali principi immutabili non è legge bensì, dice S. Tommaso, "legis corruptio". È il problema della legge ingiusta che si pone alla ragione e allo spirito come un autentico scandalo.



Quest'anno si ricordano i settant'anni del Processo di Norimberga. Non possiamo in questa sede affrontare le questioni di natura processuale (prima fra tutte quelle della retroattività della norma penale incriminatrice o della composizione del collegio giudicante) che tale vicenda storico-giuridica continua a porre ma possiamo evocare, come ulteriore esemplificazione di quanto detto sopra, il problema filosofico della validità, o meglio, della stessa ontologia della legge promulgata durante il regime nazionalosocialista. Viene qui in aiuto, seppur con i suoi innegabili limiti, la c.d. "Formula di Radbruch", eminente filosofo e penalista del secolo scorso (figura complessa; il suo pensiero ha subito un passaggio da un'impostazione più normativista ad una giusnaturalistica "debole" secondo Alexy). Nel saggio del '46 Gesetzliches Unrecht und übergesetzliches Recht, Radbruch asserisce che qualora il diritto positivo, consacrato nella norma giuridica, raggiunga un livello di palese ingiustizia, negando l'uguaglianza, non ci si potrebbe nemmeno esprimere in termini di "diritto ingiusto" o di "torto legale" bensì di assenza della stessa natura di diritto. Le leggi spietate emanate durante il periodo nazista non avrebbero dunque alcuna validità giuridica. Non ci troveremo pertanto di fronte ad un mero diritto intollerabile ma ad una condizione di anomia (Nicht-Recht). Il processo di Norimberga, e in genere le vicende dei totalitarismi, hanno evidenziato i limiti delle teorie positiviste nella loro cieca fiducia sulla validità formale della norma giuridica, ridestando una coscienza critica circa i fondamenti del diritto che trascendano il piano positivo ed empirico: riemergono le istanze giusnaturalistiche del diritto naturale (categoria richiamata per quel capo d'imputazione dei "crimini contro l'umanità", richiamati per la prima volta nel '20 con il trattato di Sévres il quale punisce il genocidio armeno compiuto dagli Ottomani). Tali istanze furono poi riprese ed accolte anche dalle singole corti federali tedesche. L' uomo avverte che c'è un qualcosa che gli permette di sindacare i contenuti di una legge: giacché è buono ciò verso cui, secondo ragione, sono naturalmente inclinato ed è cattivo ciò che, secondo ragione respingo, posso cogliere - anteriormente alla legge - il giusto: una volta colto, lo iustum opera come intuizione teleologica di un plesso valoriale pregiuridico che non può non costituire il fondamento ontologico e gnoseologico dell'ordinamento giuridico stesso nel quale il legislatore deve statuire conformemente a questi principi e il giudice decidere in base ad essi e in forza di essi.

Il complesso rapporto tra diritto e giustizia non può essere colto a mio modesto parere se non andando alle radici della Giustizia. Trattando dell'Incarnazione del Verbo di Dio, S. Tommaso si chiede se all'umanità sia dovuta la redenzione e lapidariamente risponde così: peccatori debetur non vita sed mors (trad.). L'Incarnazione redentrice di Gesù non era dovuta all'uomo, non è avvenuta, allora, per giustizia bensì per qualcosa d'altro: solo per Misericordia. Appeso alla croce, prima di rimettere lo spirito al Padre, Cristo perdona i suoi aguzzini ed accoglie nel Suo Regno il ladrone pentito. Se Giustizia è dare a ciascuno il suo, agli accusatori di Gesù sarebbe spettata la punizione, il castigo e non il perdono. Ma il Figlio di Dio, invece, perdona e salva.
Il diritto non ha certo una componente soteriologica (cioè non dona la salvezza) ma è chiamato a garantire le relazioni tra gli uomini non solo in un'ottica di mera e pacifica convivenza bensì di mutua crescita sociale ed umana per il bene comune. Un diritto che aspiri ad essere autenticamente giusto non può disconoscere la sua dipendenza dalla Giustizia che è avvinta in un grande abbraccio con la Misericordia. Guardando al bisogno dell'altro - ecco l'importanza di meditare sulle opere di Misericordia - io posso agire secondo Giustizia. Ma solo riconoscendo l'altro come persona, nella sua dimensione sacra, io posso davvero tutelarlo: e questo è l'arduo compito a cui è chiamato il diritto.

Marco Ciuro


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