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La Voce del Sileno, Italo Francesco Baldo: Interpretare e interpretare, una babele

Di Italo Francesco Baldo Venerdi 27 Gennaio 2017 alle 14:27 | 0 commenti

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Ospitiamo l'undicesimo articolo de La Voce del Sileno, rivista on line che "intende coinvolgere tutti coloro che hanno a cuore la ricerca filosofica, culturale e in modo indipendente la propongono per un aperto e sereno confronto".
“L’uomo è uomo in quanto parla” sosteneva Wilhelm von Humboldt, ma un uomo che è suo vicino, lo interpreta. Questo il destino delle umane genti, parlare e interpretare, anche quando il parlare fosse scritto (M. Heidegger)
Tutti parlano e soprattutto tutti interpretano, nei più svariati modi e spesso con poche conoscenze nel merito e ciò avviene soprattutto in argomenti molto delicati che esigerebbero oltre alla conoscenza, anche prudenza e  soprattutto attenzione a non “pasticciare” o addirittura mettere in confusione. Se nella matematica nessuno quasi oserebbe “dire la sua” o interpretare, in altri argomenti che coinvolgono maggiormente, ecco che si osa dire di tutto e di più e pensare che il grande filosofo Eraclito ammoniva:” Non giudichiamo come capita delle cose più grandi.”

Infatti, è con la nascita dell’uomo si pone fin da subito il problema dell’interpretazione, che è poi il problema della comprensione, quindi della conoscenza, che non può avvenire se non vi è interpretazione del mondo. Infatti, che cosa altro è la conoscenza e in particolare la filosofia se non il tentativo, secolare di fornire un’organica, purtroppo talora contraddittoria e confusa interpretazione del mondo? Proprio dalla filosofia nasce l’esigenza di dare risposte precise, di comprendere – interpretare il mondo. Potremo delineare l’intera storia della filosofia fino ai nostri giorni come il problema di stabilire che cosa e in che modo interpretare. Classicamente, la filosofia che intende rispondere alle questioni fondamentali: “Chi sono?” e “Che cosa è il mondo?”e “Quale il fine dell’uomo e del mondo?” pone il tema di interpretare. Ciò è accaduto anche prima della nascita greca della filosofia, in quella che gli storici definiscono sapienza pregreca, cioè in quella magica dei Caldei o gimnosofista degli indiani o, come sosteneva gli storici della filosofia del Settecento, nel sapere druidico. A tutto ciò si affiancava un altro sapere, quello della religione, del mito; ognuno un modello di ragionamento, specifico e non subordinato l’uno all’altro come affermavano le interpretazioni dell’illuminismo, di G. Vico e del positivismo di A. Comte. Tutti, magia, mito, religione, filosofia, scienze non sono che interpretazioni del mondo, ognuna con un suo preciso statuto, con caratteristiche problematiche proprie, che possono anche variare a seconda dalle latitudini, delle epoche, perché gli uomini hanno sempre risposto ai quesiti fondamentali e la loro risposta può essere rintracciata in tutte le espressioni presenti in una determinata società. Non sarebbe concepibile il diritto positivo in una società tribale, come non sarebbe concepibile la visione del divino nel mondo greco senza quella particolare interpretazione dell’uomo. Ognuno di questi saperi dava e dà luogo ad altri saperi, a molteplici manifestazioni, e ciascuna di esse affonda le proprie radici nella interpretazione, ovvero nella risposta che è fornita a quelle domande fondamentali di cui abbiamo riferito. E’ un’immagine dell’uomo e del mondo che in connessione con l’interpretazione dell’uomo e del mondo costruisce il mondo stesso. Seguire proprio queste immagini significa porsi in rapporto chiaro e diretto con le epoche che le hanno espresse. Nasce in ciò, come ben sosteneva il filosofo Luigi Payreson (1918-1991), in questo il problema del rapporto tra verità e interpretazione.
  E’, infatti, precisa proprio Pareyson, l’interpretazione che “qualifica quel rapporto con l’essere in cui risiede l’essere stesso dell’uomo; in essa si attua la primigenia solidarietà dell’uomo con la verità. Fin dall’inizio della specializzazione è stato inteso che ogni atto umano è interpretativo, perché è nella stessa natura umana la curiosità, cioè il desiderio di dare un’interpretazione a se stesso e al mondo. Ben  sosteneva ciò Aristotele nel libro primo della Metafisica: “Tutti gli uomini sono protesi per natura alla conoscenza: ne è un segno evidente la gioia che essi provano per le sensazioni, giacché queste, anche se si metta da parte l’utilità che ne deriva, sono amate di per sé, e più di tutte le altre è amata quella che si esercita mediante gli occhi” (Aristotele 1, I, 980a). Proprio per questo motivo “Interpretazione è anche quell’attività che è la filosofia, la quale è, nello stesso tempo, una teoria dell’interpretazione, cioè filosofia e filosofia della filosofia”  dichiarava G. Santinello (1922-2003). Ma non si pensi  però che l’atto interpretativo sia questione “metafisica”, lo è, ma in quanto ogni metafisica coinvolge direttamente l’uomo anche nella sua dimensione esistenziale, storica, perché la dimensione interpretativa è essenziale ed essa dà accesso alla verità. Questa la linea generale che possiamo rintracciare in gran parte della elaborazione filosofica, da Talete all’Ottocento, quando il quadro della dimensione “interpretazione” muterà sia nell’ambito della stessa ricerca filosofica sia in quella scientifica. Sempre più dalla metà dell’Ottocento con la crisi della matematica e della fisica classiche, l’interpretazione assumerà la caratteristica di essere “una delle possibili” risposte e essa tenderà a scindere il legame con la dimensione della verità. Ciò comporterà un passaggio alla riflessione filosofica, fino ad affermare la negazione dell’esistenza possibile della verità: esiste solo ed unicamente quanto in questo momento riusciamo a definire, sempre aperti a nuove interpretazioni. Questa è un’importante affermazione, giacché sostiene che le scienze, la loro ricerca, come sostiene D. Antiseri sulla scia dell’elaborazione di K.Popper (1902-1994), non possono più pretendere un’interpretazione universale, ma solo relativistica, intesa “come non assolutismo”, cioè come una posizione non fideistica e non dogmatica . Le conseguenze di questa posizione nell’ambito scientifico inducono a negare qualsiasi possibile umano assoluto e non solo nell’interpretazione di cui l’uomo è capace, ma anche nella sua esistenza, nella società. Società aperta dunque, cioè aperta al maggior numero possibile di portatori di idee, ideali e fedi diverse e magari contrastanti, con l’unica preoccupazione di chiudere ai totalitarismi politici e alle intolleranze. Un’importante prospettiva questa, che privilegia la dimensione razionale dell’uomo, che tenta di trovare continua soluzione ai problemi, attraverso congetture e confutazioni, che egli stesso si pone, che il mondo pone e gli pone. Accanto a questa nasce e si sviluppa in sordina, ma ha oggi un grande impatto, la visione che non esista più l’uomo, ma solo il singolo: è l’elaborazione di M. Stirner, che non porta a quella relazione tra le diverse interpretazioni, tra le diverse congetture e soluzioni, né implica classicamente la dimensione di una ricerca della verità, che non è mai stata intesa nelle scienze, ma nella scienza, ovvero nella teologia. Le considerazioni del pensatore tedesco inducono a riflettere sul fondamento stesso della possibilità dell’interpretazione ovvero singolo esprime e che gli consente di porsi di fronte a se stesso e al mondo senza dover mai tener conto dell’alterità. Questa prospettiva dove la libertà come assoluto pone ogni singolo nella condizione di poter interpretare senza dialogo, senza confronto, almeno controverso, ovvero senza alterità, il mondo. Ogni singolo diviene così interprete, facendo quindi nascere una babele di interpretazioni, ognuna valida, perché detta valida, ognuna relativistica, non perché non assoluta, ma perché relazionata solo a se stesso. In questa prospettiva non vi è posto per l’uomo, ma solo per il singolo, che nella sua assoluta solitudine erge a realtà totale proprio solo ciò che egli interpreta, cambiando interpretazione non secondo dati, o prospettive, ma unicamente secondo il proprio volere. Non più immagini o idea o definizione dell’uomo, ma solo esistenza del singolo, perciò non vi è più la possibilità di una dimensione esistenziale almeno comune tra soggetti umani e quindi che non vi può essere neppure un’interpretazione generale; non vi è più nemmeno la possibilità di istituzioni orali, politiche, giuridiche o economiche, ma solo il volere del singolo è eretto a istituzione, perché è il singolo a fornire l’interpretazione di se stesso e del mondo che lui vuole.
Per precisare dunque vi sono tre livelli di interpretazione: il primo è quello della ricerca filosofica e scientifica ovvero la ricerca di definizioni, elementi, principi, modi di e per la conoscenza Interpretare significa conoscere.
Il secondo è quello della sofistica, che attraverso l’arte della retorica interpreta il mondo non per quello che esso può essere indipendentemente dall’interprete, ma solo per quello che è per l’interprete.
Infine il terzo è quello che si sta diffondendo a partire da una nuova visione antropologica, dove non si pone nemmeno più in modo diretto come per i sofisti la strumentalizzazione, ma si pone il mio singolare modo di interpretare il mondo. Non vi è quindi nemmeno più il problema di una comprensione, né quello di un utilizzo, ma semplicemente io mi esprimo, io interpreto; non vi sono mediazioni, c’è solo la possibilità eventuale da me posta di una condivisione come si usa spesso dire oggi. L’esito di siffatta prospettiva è una babele di interpretazioni dalla quale è ben difficile uscirne.
A ciascun “modello” di interpretazione seguono gli ambiti, così se la ricerca interpretativa è scientifica avremo le istituzioni di un governo bene ordinato, o almeno il tentativo di dare alle istituzioni una prospettiva unitaria. La legge non è ad arbitrio, ma è stabilita, almeno convenzionalmente. Nella sofistica si prescinde da un’interpretazione possibilmente univoca, ma in modo rilevabile si utilizza quanto serve alla propria prospettiva; appare quindi la suddivisione in partiti, ognuno dei quali portatore o si ritiene portatore dell’interpretazione migliore.
La terza, non ha nessuna interpretazione generale e quindi non ha il problema delle istituzioni, quando queste esistono, esse sono e debbono essere al servizio della mia esplicita volontà: quod mihi placuit, lex debet esse.
Si tratta spesso di comprendere  il valore  di avere nel pensiero semplicità e chiarezza, mentre si tende a visione complesse nelle quali  è  facile perdersi e nelle quali la volontà interpretativa è solo fine a se stessa e soprattutto teme il  dialogo che è ricerca di verità e non  confronto tra posizioni già assunte che sono tra loro irriducibili.
Forniamo qui un breve schema per evidenziare che cosa intendiamo per sistemi semplici e sistemi complessi, questi ultimi originano Babele (troppi mattoni senza preciso collante rendono la costruzione instabile).
 
                                                Tavola riassuntiva dei sistemi
 
 Tavola riassuntiva dei sistemi
 
L’interpretazione quindi non è un semplici “io la penso così” ma la disponibilità alla ricerca e il cammino d’insieme, senza elevare il proprio pensiero o posizione ad assoluto.
La società moderna con il suo solipsismo teoretico, va invece proprio dalla parte opposta del dialogo e tende a chiudersi, manifestando, talora anche in modo aggressivo e senza le necessarie conoscenze, competenze, ad affermare che il proprio pensiero è l’unico. In ciò si dimentica, tra gli altri la sentenza di Eraclito da Efeso, ricordato da Francesco Bacone: gli uomini cercano le scienze nei loro piccoli mondi privati e non nel più grande mondo a tutti comune.
 
Per saperne di più cfr. “Acta Histriae” 17(2009), reperibile anche in internet.

 

Coordinatore de "La voce del Sileno" Italo Francesco Baldo
Si chiede a tutti coloro che leggono questo articolo di trasmetterlo ad amici e conoscenti.
I contributi vanno inviati al coordinatore all'indirizzo di posta elettronica: [email protected]
 

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