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La Voce del Sileno, Fabio Minazzi: "Scienza e democrazia, un contributo alla riflessione critica"

Di Emma Reda Sabato 10 Dicembre 2016 alle 16:54 | 0 commenti

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Ospitiamo il terzo articolo de La Voce del Sileno, rivista on line che "intende coinvolgere tutti coloro che hanno a cuore la ricerca filosofica, culturale e in modo indipendente la propongono per un aperto e sereno confronto".

Scienza e democrazia, un contributo alla riflessione critica, di Fabio Minazzi* (nella foto) dell'Università degli Studi dell'Insubria- Varese

«Nella storia reale la parte importante è rappresentata, come è noto, dalla conquista, dal soggiogamento, dall'assassinio e dalla rapina,in breve dalla violenza. Nella mite economia politica ha regnato da sempre l'idillio. Diritto e "lavoro" sono stati da sempre gli unici mezzi d'arricchimento, facendosi eccezione, come è ovvio, volta per volta, per "questo anno". Di fatto i metodi dell'accumulazione originaria son tutto quel che si vuole fuorché idillici».

Karl Marx, Il Capitale, libro I, cap. XXIV

1. La genesi della modernità nel "secolo di ferro"

Spesso e volentieri non si presta sufficiente attenzione critica ad un'evidenza storica assai emblematica. A partire dal XVII secolo, ovvero a partire da quello che, in genere, gli storici qualificano come il "secolo di ferro", si sono generate, pressoché contemporaneamente, due decisive tradizioni che contraddistinguono, in modo assai rilevante, l'intero mondo moderno, ovvero quella connessa con la scienza moderna e quella civile e sociale, da cui è scaturita, in ultima analisi, la società democratica contemporanea.

La scienza nasce infatti nel corso del Seicento grazie all'opera rivoluzionaria di Galileo Galilei (1564-1642), unanimemente riconosciuto come il padre della scienza moderna. Scienza che ben presto si è approfondita e si è diffusa, soprattutto grazie al contributo di uno scienziato straordinario come Isaac Newton (1642-1727), grazie alla cui opera la fisica-matematica diventerà, ben presto, il paradigma privilegiato di riferimento della stessa conoscenza umana. In questa prospettiva la fisica-matematica ha così esercitato un ruolo-guida che spiega non solo gli indubbi e straordinari punti di forza di questa feconda tradizione scientifica, ma consente anche di meglio intenderne anche i suoi limiti. Il modello scientifico della fisica-matematica finì infatti con l'imporsi in modo così pervasivo, egemonico e generalizzato da trasformare la stessa struttura delle teorie scientifiche, proprie e specifiche della fisica-matematica, nel modello, quasi per antonomasia assoluto e intrascendibile, della stessa conoscenza scientifica. In tal modo il pur straordinario modello conoscitivo empirico-sperimentale storicamente elaborato dalla fisica matematica esercitò un vero e proprio "imperialismo" concettuale nei confronti di tutte le altre differenti discipline scientifiche (si pensi, per esempio, alla sola biologia o anche alla sola medicina che vennero considerate come "scienze molli" in contrapposizione alle cosiddette "scienze dure", secondo un curioso, ma certamente assai emblematico, "celodurismo" ante litteram...). Di conseguenza, sia pur anche per fondamentali e profonde ragioni, direttamente connesse con la struttura specifica del rigore logico-matematico e della sua funzione euristico-relazionale, tutte le differenti indagini scientifiche cercarono, più o meno direttamente, di modellarsi, necessariamente, sullo specifico e particolare modello di rigore conseguito in ambito fisico-matematico. Il che ha poi dato luogo, a sua volta, anche ad una assai lunga, ricca e complessa tradizione di pensiero epistemologico, prevalentemente incentrata sul problema esclusivo - ma, invero, anche assai fuorviante e pregiudiziale - del "metodo scientifico". Questa tradizione ha contraddistinto, per secoli, la riflessione filosofica ed epistemologica e solo molto recentemente, si è infine fuoriusciti, criticamente, da questo orizzonte totalizzante e dogmatico, recuperando la piena consapevolezza epistemologica - peraltro già presente in Galileo! - dell'estrema plasticità critica con la quale ogni disciplina scientifica cerca sempre di indagare il suo oggetto specifico di studio aderendo al proprio "oggetto", mettendo sempre in campo strategie metodologiche assai differenziate e diversificate, sempre opportunamente calibrate in relazione diretta e feconda con il proprio specifico ambito di indagine. In questa prospettiva la scienza non è affatto basata su di un unico metodo, perché semmai costruisce sempre il proprio metodo di indagine a seconda degli "oggetti" che intende indagare conoscitivamente. Da questo punto di vista si può allora rilevare come dal Discorso sul metodo (1637) di René Descartes fino a Contro il metodo (1975) di Paul Karl Feyerabend, gli epistemologi si siano sostanzialmente accapigliati intorno ad un problema fuorviante ed inesistente: appunto quello del metodo scientifico, come se la scienza avesse un solo metodo, applicando correttamente il quale si producessero, automaticamente, le varie conoscenze specifiche dei differenti ambiti disciplinari. In realtà il cosiddetto problema (cartesiano!) del metodo scientifico, assoluto ed unico, è solo un mito dogmatico fuorviante, perché fa perdere di vista la concretezza e la plasticità critica specifica dell'impresa scientifica. Come se la scienza fosse unica e, appunto, si basasse, assai semplicisticamente, su un solo ed unico metodo scientifico, applicando il quale si otterrebbe, invariabilmente, la produzione, meccanica e automatica, della conoscenza. Ma proprio questa curiosa deformazione dell'impresa scientifica costituisce esattamente il prodotto, forse il più emblematico, di una pur straordinaria tradizione di pensiero che ha appunto trasformato una disciplina - la fisica-matematica - nel paradigma e nel modello assoluto e intrascendibile della conoscenza. Se invece si abbandona questa miope prospettiva, assai unilaterale, diventa allora importante cogliere tutta la plasticità intrinseca delle molteplici strategie conoscitive che la disamina scientifica, in ogni ambito specifico, pone sempre in essere, onde meglio approfondire la conoscenza del mondo reale. Ma, di contro, appunto, proprio l'egemonia del "problema del metodo" costituisce, allora, l'indubbia controprova dell'imperialismo concettuale che il modello della conoscenza fisico-matematica ha esercitato nel corso dello sviluppo degli ultimi tre secoli della scienza moderna. In ogni caso, prescindendo decisamente dal ruolo che il modello della fisica-matematica ha esercitato nella costruzione dell'immagine della scienza, lo sviluppo, comunque impetuoso, della ricerca scientifica ha indubbiamente contraddistinto gli ultimi secoli della modernità. Bertrand Russell era così solito rilevare, con la sua tradizionale lucidità, come «centocinquant'anni di scienza si sono dimostrati più esplosivi di cinquemila anni di cultura prescientifica»[1]. L'affermazione di Russell può anche configurarsi come un provocatorio "cazzotto" allo stomaco, tuttavia, se ci si riflette un poco, è indubbio come, effettivamente, la vita quotidiana di milioni e milioni di persone sia stata profondamente ed effettivamente trasformata proprio dalla presenza e dalla diffusione sociale del patrimonio tecnico-scientifico. Al punto che oggi non saremmo neppure più in grado di ben comprendere una vita che dovesse svolgersi senza la preziosa mediazione di un complesso apparato scientifico-tecnologico che ci appare come del tutto "naturale" e "irrinunciabile". In questo senso specifico la scienza e la tecnologia, meglio ancora, le tecno-scienze contemporanee, esercitano una presenza sempre più pervasiva entro la quotidianità della vita di molti milioni di persone, perlomeno del mondo occidentale.

Ma, come si è accennato, sempre a partire dal XVII, secolo sono anche nate alcune nuove teorie - soprattutto a partire da quelle dei giusnaturalisti - che hanno variamente rivendicato la presenza di taluni specifici diritti "naturali" ed "inviolabili". Facendo progressivamente leva critica su questi diritti dell'uomo, universali, inviolabili e apparentemente "naturali", l'immagine complessiva della società umana è stata così profondamente ripensata e rielaborata. Da questo punto di vista la storia della modernità coincide allora anche con la storia della progressiva affermazione di questi diritti universali ed inviolabili, che hanno appunto indotto a ripensare, ab imis fundamentis, la stessa natura complessiva della società umana, contribuendo, in modo invero decisivo e, ancora una volta, veramente rivoluzionario, a ridisegnare la configurazione complessiva del nostro mondo quotidiano. La rivoluzione delle "teste rotonde" di Oliver Cromwell (1599-1658) nel corso del Seicento, con la conseguente nascita, in Inghilterra, del primo Paramento della modernità, e, sul continente europeo, sia pur solo nel secolo successivo, la Rivoluzione francese (1789), rappresentano due momenti oltremodo emblematici e, invero, storicamente cruciali e costitutivi di questa innovativa tradizione civile. Tradizione altrettanto complessa e rivoluzionaria, che ha innescato anch'essa una profonda trasformazione civile e sociale, mediante la quale il tradizionale mondo feudale pre-moderno è stato sistematicamente decostruito e spazzato via dalla scena storica, onde lasciare spazio ad una nuova, più dinamica, configurazione della società civile moderna. La tradizione storico-civile inauguratasi con la rivendicazione sociale dei diritti di prima generazione (cui poi, storicamente, se ne sono affiancati molti altri, appunto i diritti di seconda, di terza e ora anche di quarta generazione, che hanno progressivamente e variamente esteso l'ambito di rivendicazione della libertà di autotrascendenza del singolo nella concretezza del costume storico) ha così dato avvio ad una profonda e invero gigantesca trasformazione sociale, che ha ridisegnato, complessivamente, l'immagine dell'intera società umana. Al punto che tutti noi oggi, perlomeno nel mondo occidentale, siamo figli proprio di questa tradizione rivoluzionaria, anche quando non ne abbiamo una precisa consapevolezza critica, storica e civile. Naturalmente anche in seno a questa tradizione civile non sono mancati molteplici e gravi problemi, proprio perché l'affermazione storica rivoluzionaria di questi diritti inviolabili ed universali di prima generazione non è mai andata esente, perlomeno nel concreto e assai contraddittorio terreno storico dell'effettivo mondo della prassi umana - quello che un filosofo come Georg Wilhelm Friedrich Hegel qualificava senz'altro come un autentico «banco da macellaio» - da notevolissime contraddizioni, da ritardi ed incredibili incongruenze, che ne hanno variamente ritardato, o anche profondamente deformato, la sua stessa realizzazione sociale. In ogni caso, malgrado tutti questi fallimenti, tutte queste incongruenze, tutti questi ritardi, nonché le molteplici e palesi contraddizioni che hanno variamente contraddistinto lo svolgimento effettivo di questa tradizione civile, è comunque un fatto che l'affermazione storica degli "immortali principi" dell''89 ha innescato, sul piano storico-civile, un profondo processo di non ritorno nella storia della vita moderna. Un profondo processo di non ritorno, alla luce del quale è appunto possibile, ancor oggi, anche a livello planetario, stabilire e misurare tutto lo sviluppo (oppure anche il mancato o del tutto insufficiente sviluppo) di molte società contemporanee. Non solo: proprio questa tradizione civile ha anche innescato, a sua volta, la possibilità, innovativa, di approfondire, criticamente, lo stesso patrimonio dei diritti civili e sociali, al punto che oggi, come si è accennato, non si parla più solo dei diritti di prima generazione, perché a questi si sono affiancati molti altri diritti - appunto quelli di seconda, terza e quarta generazione - mediante i quali si è progressivamente dilatato e approfondito l'ambito della libertà della vita sociale di ciascun individuo, cercando di tutelare, in modi sempre più diversi e sempre meglio articolati, il diritto alla vita e alla libertà non solo degli uomini e delle donne di tutto il pianeta, ma, tendenzialmente, anche di tutti gli esseri viventi. Anzi, proprio da questo punto di vista, tendenzialmente "planetario", i ritardi, le molteplici e indubbie contraddizioni storiche che si possono (e si devono!) certamente riscontrare (e denunciare!) nella progressiva affermazione storico-planetaria di questo complesso patrimonio di diritti, si ricollegano, a loro volta, all'indubbio valore paradigmatico ed euristico di questa stessa tradizione di pensiero civile la quale, con la sua stessa affermazione storica rivoluzionaria, ha posto le basi e le premesse euristiche per il suo stesso superamento critico, aprendo una prospettiva di lotta e di impegno sociale e civile che non può che crescere proprio grazie alla denuncia di tutti i ritardi storici che hanno ostacolato (o cercato di impedire) una più ampia e diffusa affermazione di questi stessi diritti di libertà, uguaglianza e solidale fraternità tra tutti i viventi. Questi diritti si sono del resto affermati in modo storicamente miope e spesso affatto contraddittorio in pressoché tutti i paesi occidentali moderni, i quali, hanno tendenzialmente e contraddittoriamente tutelato e difeso, sia pur, appunto, entro certi evidenti limiti, questi diritti all'interno delle proprie società civili, anche nel momento stesso in cui li hanno invece, clamorosamente, calpestati, e sistematicamente negati o repressi, all'esterno (per esempio nei confronti del mondo delle colonie in cui intere popolazioni sono state razzisticamente fruttate e spesso ridotte in uno stato di autentico servilismo economico schiavile). Ma proprio questa clamorosa contraddizione storica - che non può e non deve essere rimossa o taciuta - si può e si deve trasformare in un autentico boomerang per quegli stessi paesi che hanno avuto il merito di sollevare, per primi, l'esigenza della tutela dei diritti, avendo poi anche il demerito storico di averli apertamente negati al di fuori dei propri confini nazionali. Del resto entro questa stessa contraddizione storica gli stessi diritti non vengono affatto menomati, ma, semmai, si riaffermano in tutta la loro valenza rivoluzionaria, proprio perché consentono, appunto, di dipanare un fondamentale "contropelo critico" a quella stessa storia civile e sociale che li ha generati. Non solo: anche la critica più feroce di questi diritti, spesso condotta da un punto di vista di un loro significativo approfondimento critico, ha contribuito a rafforzarli ed estenderli in vario modo. Basterebbe così pensare, per esempio, a quanto è accaduto in occidente con il movimento dei diritti delle donne che, soprattutto nella sua tradizione femminista del tardo Novecento, si è lungamente e tormentosamente interrogata anche sul valore e i limiti paradigmatici della stessa "uguaglianza" dei diritti (uguaglianza tra uomo e donna, certo, ma per essere poi "uguali" a chi?). Del resto già un rivoluzionario come Friedrich Engels (1820-1895) aveva osservato che sul terreno storico se si vuole eventualmente "misurare" e valutare storicamente il grado di libertà e di sviluppo civile complessivo di una qualunque società umana è buona norma andare a studiare la precisa condizione di vita delle donne in quella particolare società[2]. La condizione di vita delle donne costituisce così un ottimo e fecondo "metro di misura" della stessa civiltà di qualunque società storica umana...

 

 

2. Conoscenza e libertà: due volti della medesima tradizione

 

Se ora si guarda alla storia occidentale complessiva degli ultimi due-tre secoli alla luce specifica dell'intreccio problematico delle due tradizioni (quella scientifica e quella civile) precedentemente osservate, non sarà allora difficile scorgere un loro profondo ed intimo nesso. In primo luogo, non ci si può non interrogare su un'apparente e assai curiosa coincidenza storica, cui, tuttavia, in genere, non si dedica mai una sufficiente attenzione critica. Non si può infatti negare come, assai curiosamente, lo sviluppo impetuoso della tradizione scientifica moderna degli ultimi tre secoli si sia affermata storicamente proprio nello stesso arco temporale in cui si è anche via via costruito un nuovo modello di società civile repubblicana moderna, tendenzialmente sempre più aperta e democratica. Di fronte a questa evidenza storica - in cui la storia dello sviluppo della scienza si intreccia e corre parallela alla storia dell'affermazione progressiva dei diritti umani - occorre allora porsi una domanda radicale: questo doppio e tendenzialmente parallelo sviluppo storico, malgrado tutte le sue indubbie tortuosità, le sue varie battute d'arresto e anche le sue palesi contraddizioni, è frutto di un caso del tutto fortuito, oppure esiste un legame più profondo, intimo e vitale che lega profondamente l'incremento della conoscenza con la costruzione storica delle società aperte e democratiche, di società di liberi ed uguali?

Di fronte a questa domanda sono assai pochi i pensatori che hanno saputo scorgere ed individuare il profondo nesso che collega l'incremento della conoscenza con la possibilità di costruire un mondo sempre più libero e una società sempre più tollerante ed aperta. Tra questi si colloca senza dubbio un illuminista come Immanuel Kant (1724-1804) che, sul finire del Settecento, aveva già compreso come tra conoscenza e libertà si innesti, storicamente, perlomeno entro la tradizione occidentale, un fecondo nesso decisivo. Per Kant la filosofia, al di là di tutto il complesso ed articolatissimo apparato della sua originale prospettiva trascendentalistica (che si è appunto articolata in un sistema filosofico estremamente dettagliato ed analitico), deve saper sempre rispondere ad una domanda ineludibile e centrale: che cos'è l'uomo? Ma Kant era anche consapevole che la risposta decisiva a questa domanda, apparentemente semplice ma del tutto radicale, implica, a sua volta, altre tre questioni, non meno importanti e strategiche, ovvero una domanda che si interroga coraggiosamente sui limiti e il valore intrinseco della conoscenza umana (che cosa possiamo conoscere?) una domanda attinente all'uomo quale soggetto morale e responsabile (che cosa dobbiamo fare?) e, infine, una domanda attinente la dimensione utopico-escatologica della vita umana (che cosa ci è lecito sperare?). Secondo Kant queste tre domande configurano una tricotomia critica irrinunciabile e strategica, proprio perché mettono in feconda ed intima relazione la conoscenza con la libertà e con la speranza. Se la prima domanda, concernente la conoscenza, si interroga prevalentemente sulla natura epistemologica della stessa conoscenza umana, ovvero sulla costituzione normativa e formale delle nostre conoscenze (che non sono mai la mera descrizione passiva del mondo), la seconda ci riporta, invece, all'ambito del mondo della prassi, entro il quale dobbiamo sempre agire autonomamente, secondo talune scelte che implicano una nostra precisa e libera responsabilità morale che sempre ci consente di autotrascendere il concreto del vissuto. Ma appunto impostando il problema del nesso che esiste tra queste due dimensioni della conoscenza e della libertà, Kant è stato anche uno dei primi pensatori della modernità che ha ben compreso come la nostra stessa possibilità di libere azioni responsabili sia sempre strettamente intrecciata con la nostra stessa possibilità di meglio conoscere il mondo. Infatti più si dilata la nostra conoscenza del mondo più si ampliano le nostre stesse libertà responsabili di azione. Insomma: più conosciamo e più siamo liberi proprio perché l'incremento del sapere implica, di necessità, un incremento della nostra stessa libertà di azione. Il che implica anche il rovescio della medaglia: meno conosciamo, meno siamo liberi nella nostra possibilità di azione. Ma Kant si è poi anche reso conto che è proprio e specifico della nostra tradizione occidentale aver colto, perlomeno nel mondo della prassi concreta della vita storica, il nesso strategico e costitutivo che lega, appunto, conoscenza e libertà. La conoscenza infatti non solo implica la libertà per essere approfondita e sviluppata criticamente nei differenti settori della ricerca scientifica, ma il suo rapporto con la libertà si rivela molto più sostanziale, proprio nella misura in cui la dilatazione della nostra conoscenza del mondo ci mette in condizione di meglio valutare un più ampio ventaglio di azioni che si possono realizzare proprio in virtù dell'ampliamento della nostra stessa conoscenza del mondo. D'altra parte, e di contro, vale anche la relazione reciproca ed inversa, proprio perché la nostra libertà di agire viene sempre incrementata e ampiamente dilatata proprio alla luce dell'approfondimento critico delle nostre stesse conoscenze. Non per nulla già nel Seicento non era mancato chi - come Francis Bacon - aveva sottolineato che conoscere è potere: chi più conosce può infatti prospettarsi una più ampia gamma di possibilità di azione, mentre, di contro, chi meno conosce, più è condizionato nella sua stessa libertà di azione.

Sul piano complessivo della storia della tradizione occidentale Kant ha poi ben compreso come proprio questo stretto e fecondo nesso tra conoscenza e libertà costituisca l'asse strategico e portante della nostra recente storia occidentale, quella che ha contraddistinto gli ultimi tre secoli. Il che, appunto, spiega perché a partire dal Seicento in poi l'approfondimento continuo delle conoscenze si sia via via affermato, parallelamente, allo sviluppo e all'approfondimento della tutela dei diritti propri delle società civili aperte e repubblicane. Per questo motivo, intrinsecamente connesso alla storia profonda e meno superficiale della modernità dell'occidente, la nascita dei primi Parlamenti e la formazione di società civili, aperte e tolleranti, in grado, appunto, di tutelare sempre meglio i diritti dei cittadini, si è allora affermata progressivamente proprio grazie all'approfondimento complessivo della nostra conoscenza del mondo (che si è anche tradotta nella costruzione di una tecnologia sempre più sofisticata, in grado di migliorare, assai sensibilmente, le condizioni di vita dell'uomo). Ma i due processi - quello conoscitivo, volto ad approfondire criticamente il nostro patrimonio storico tecnico-scientifico e quello civile, volto all'ampliamento critico sistematico dei diritti umani e alla connessa configurazione di un patrimonio civile di diritti sempre più ampio, ricco ed articolato - costituiscono lo sviluppo complessivo di un solo e medesimo processo, quello, appunto, della modernità occidentale, mediante il quale si è via via configurato il mondo contemporaneo con tutte le sue straordinarie potenzialità, ma anche con tutte le sue, non meno profonde e assai gravi, contraddizioni; sociali, civili, economiche e anche conoscitive. Kant, nel delineare questa intima dialettica storica attuatasi tra conoscenza e libertà, ha poi avuto l'avvertenza critica - da bravo e conseguente illuminista - di aver anche compreso come l'arco di volta che intreccia e coinvolge dinamicamente i due processi storici - quello della tradizione scientifica e quello della tradizione civile - in un unico e complessivo trend storico progressivo, è rappresentato proprio dalla speranza, dalla forza dell'utopia che, appunto, è in grado di intrecciare il patrimonio delle conoscenze con il patrimonio dei diritti, onde configurare una società sempre più libera e sempre più consapevole del suo stesso destino radicalmente umano.

Per comprendere appieno la radicalità di questa originale prospettiva kantiana, che spiega, per esempio, perché proprio Kant sia stato il primo pensatore ad avanzare, perlomeno nella modernità, l'«utopia» di poter abolire, una volta per tutte, la barbarie della guerra quale strumento per risolvere le controversie tra gli esseri umani, occorre saper ben comprendere il nesso che sempre si instaura, per l'uomo, tra conoscenza e moralità. A tal fine basti per esempio riflettere sulla seguente domanda: il problema della "morte per fame" costituisce, di per sé, un problema morale? A questa domanda si può rispondere in modo decisamente negativo. Infatti non avrebbe senso pensare che la morte per fame sia per esempio un autentico problema morale in un mondo come quello del medioevo in cui il patrimonio di conoscenze scientifiche e tecniche di cui allora disponeva l'umanità non era affatto in grado di far fronte, positivamente, a tutte le difficoltà, anche solo meteorologiche, di vita sulla terra. Bastava infatti una stagione più piovosa, una gelata inaspettata, una siccità più prolungata, per far perdere un intero raccolto, con la conseguente diffusione di epidemie e malattie che, inevitabilmente, avrebbero anche incrementato le "morti per fame". Ma se questo poteva forse apparire del tutto "naturale" e, quindi, sostanzialmente "inevitabile" in un qualunque periodo del medioevo, oppure anche nel corso dell'antichità, ben diversa è, invece, la configurazione di questo problema nel mondo contemporaneo. Oggi, infatti, disponiamo di uno straordinario patrimonio tenico-scientifico che, in linea di principio, ci consentirebbe certamente di sfamare tutti gli abitanti della terra. Se questo risultato, tuttavia, non è ancor oggi conseguito - come purtroppo ci ricordano, annualmente, i dati Unesco sulla diffusione del problema della fame nel mondo - questo stato di fatto non è dovuto alle nostre insufficienti conoscenze scientifiche oppure alla nostra scarsa o insufficiente capacità tecnologica, bensì dall'attuale configurazione geopolitica della terra, in cui alcuni stati (quelli occidentali) hanno configurato una feroce società dei consumi (in cui si vive, appunto, sprecando le risorse e gettando letteralmente via dei beni di consumo, consumando in tal modo la stragrande quantità delle risorse del pianeta), mentre hanno al contempo relegato la stragrande maggioranza dei sette miliardi di abitanti della Terra - quelli che vivono nel terzo e quarto mondo - a sopravvivere oppure, meglio ancora, a morire letteralmente di fame, dovendo appunto accontentarsi, pur essendo la maggioranza dell popolazione mondiale, delle briciole delle risorse della Terra lasciate a loro disposizione. Per questa ragione geopolitica nel nostro mondo la "morte per fame" costituisce un autentico problema morale, mentre la "morte per fame" nel mondo antico o nel mondo medievale non era affatto un problema morale. La responsabilità morale si configura infatti solo là dove l'uomo può operare una libera scelta, non dove è costretto dalla necessità. Là dove non gode di libertà d'azione, l'uomo non è infatti mai imputabile delle sue azioni, proprio perché, non essendo libero, non gli può essere imputata la responsabilità delle azioni.

Alla luce di questo esempio, è allora del tutto evidente come proprio l'incremento della nostra conoscenza, ponendoci in una situazione che, inevitabilmente, dilata anche la nostra stessa possibilità di intervenire positivamente nel mondo, ci rende più liberi e, quindi, maggiormente responsabili delle nostre azioni. Il che allora spiega perché - a livello storico profondo, quello della storia di lungo periodo, non quello, più superficiale, della micro-storia quotidiana - nella storia della modernità occidentale l'incremento delle conoscenze scientifiche si sia accompagnato ad un parallelo incremento delle libertà civili proprie della società moderna e contemporanea. Proprio perché l'incremento sociale della conoscenza implica sempre un incremento sociale della libertà. Libertà e conoscenza, come anche conoscenza e libertà costituiscono, insomma, i due nomi di una medesima realtà dinamica propria della modernità, ovvero di quella storia della modernità al cui interno si colloca la nostra stessa esistenza quotidiana. Ma proprio nella misura in cui Kant aveva compreso criticamente la presenza interdipendente di questo nesso costitutivo tra conoscenza e libertà, ecco allora che il ruolo decisivo della speranza si prospetta come l'autentico "motore" dello stesso sviluppo storico umano. La speranza, l'utopia, ovvero lo slancio vitale verso la costruzione di un nuovo mondo diverso e migliore rispetto a quello in cui siamo stati catapultati dalla nostra nascita, costituisce, infatti, la chiave di volta di un complesso e dinamico rapporto in cui conoscenza e libertà trovano proprio nella dimensione utopica la possibilità di sempre contaminarsi criticamente, dando avvio a dei processi dinamici - vuoi di natura conoscitiva, vuoi di natura civile e sociale - entro i quali la trasformazione critica della società e dell'esistente si configura come norma per attuare, sempre più, una società, pienamente umana, di uomini sempre più liberi e sempre più uguali.

 

 

3. Capitalismo, dittatura del profitto e reificazione della conoscenza e della libertà

 

Le complesse tradizioni della conoscenza e della libertà moderne si sono affermate, come si è accennato, a partire dal XVII secolo, in un periodo storico che ha registrato la progressiva affermazione di una nuova formazione economico-sociale: quella del mondo capitalista. Come è stato ampiamente documentato e studiato analiticamente da differenti interpreti (in particolare da uno dei più profondi e acuti studiosi e critici del capitalismo moderno, ovvero da Karl Marx, 1818-1883) la storia del capitalismo non è stata meno intricata, complessa, ricca di contraddizioni di quella che ha contraddistinto l'affermazione della tradizione scientifica e anche di quella proprie dell'affermazione storica delle differenti libertà civili. Anzi, tutte queste differenti e varie componenti storiche si sono poi intrecciate tra di loro e si sono anche reciprocamente condizionate, con la conseguenza che lo studio storico-critico di queste articolate e molteplici interdipendenze deve sempre tener ben presenti le differenti situazioni e anche i vari casi storici concreti entro i quali si sono poi effettivamente dipanati i vari processi. Nell'economia complessiva delle presenti considerazioni non è naturalmente possibile tener ora presenti tutti questi molteplici ed intricati fili. Ma, sotto un certo aspetto, non è neppure necessario. Soprattutto se si ha ben presente come lo stesso capitalismo, nelle sue continue metamorfosi morfologiche, abbia necessariamente attraversato fasi e forme profondamente diversificate, anche perché la stessa borghesia ha vissuto storicamente in modo profondamente differente la propria consapevolezza storica di classe. Certo è che da un certo punto in poi la formazione economico-sociale capitalistica si è imposta senz'altro come assolutamente dominante ed egemone, estendendo, in modo sempre più capillare e pervasivo, la rete dei suoi mercati a livello prima internazionale, poi globale e ora addirittura planetario. E in ogni fase storica il capitalismo, a disdetta di tutti gli interpreti che ne davano per imminente la fine e la scomparsa, ha sempre saputo rinnovarsi e cambiar pelle per configurarsi in modo continuamente innovativo, onde non perdere mai il controllo dei mercati e della produzione mondiale. In questo modo, attraverso molteplici e continue trasformazioni dinamiche, il capitalismo si è sempre più configurato come la formazione economico-sociale veramente dominante, in grado di spezzare e ridurre sistematicamente al proprio dominio tutte le altre eventuali, conflittuali od alternative realtà storico-sociali. La forza storica dirompente del capitalismo è stata tale da aver saputo estendere a livello planetario la propria rete economica, produttiva e commerciale, con la conseguenza che attualmente i mercati cercano di dominare, in modo davvero incontrastato, la vita dell'intero pianeta. Ma va anche tenuto presente come questi mercati, generati dallo sviluppo continuo ed incessante del capitale, si contraddistinguono proprio per una sistematica riduzione e sussunzione del valore d'uso dei beni economici al loro valore di scambio, creando, in tal modo, il dominio del denaro e del capitale che tutto fagocita e assoggetta al proprio impero economico e sociale incontrastato. Tant'è vero che la disamina più matura, articolata e complessa di Marx del capitalismo, svolta dal punto di vista della critica dell'economia politica, prende non a caso le sue mosse proprio dalla consapevolezza che «la ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una "immane raccolta di merci" e la merce singola si presenta come sua frorma elementare»[3]. Con la conseguenza, storica e sociale, che proprio questo pervasivo processo economico capitalistico delinea una sistematica reificazione complessiva della vita, del mondo e degli stessi esseri umani (e dei loro rapporti sociali), riducendo sistematicamente tutto al dominio, sempre più forte, assoluto, incontrastato del profitto capitalista, al punto che oggi tutto il mondo occidentale vive letteralmente sotto la dittatura del profitto.

Questa dittatura del profitto, esercitando il proprio domino storico, ha naturalmente ricondotto alla propria dinamica di sfruttamento sistematico delle risorse e degli uomini anche le due tradizioni della conoscenza e della stessa libertà civile. In questa prospettiva il "marchio" che il capitalismo ha impresso alla tradizione della conoscenza e alla tradizione delle libertà civili ha finito per modificare e condizionare, in modo essenziale, l'autotrascendenza di queste stesse tradizioni, minandone profondamente non solo la loro libertà pragmatica, ma anche la loro stessa libertà ed autonomia teoretica. Nel caso della conoscenza scientifica appare evidente e ampiamente documentato come il capitalismo abbia cercato, sistematicamente, di ridurre la conoscenza della natura al dominio e al controllo diretto delle forze produttive. Da questo punto di vista alla dinamica del profitto non interessava affatto la scienza in quanto libera conoscenza, bensì quale prodotto dell'intelligenza umana che ci pone in grado di meglio soggiogare le forze della natura onde incrementare la produzione del profitto. In questa prospettiva il valore squisitamente teoretico della conoscenza scientifica e la sua stessa libertà di ricerca e di indagine del mondo naturale è stata sistematicamente piegata alle logiche del profitto, vincolando la ricerca scientifica a tutti gli obiettivi pragmatico-economici che interessavano (ed interessano!) direttamente il capitalismo e il suo obiettivo costante è di poter incrementare indefinitivamente il profitto. Per questo motivo di fondo le forze economiche capitalistiche hanno sistematicamente cercato di castrare la libera universalità teoretica della scienza, riducendo quest'ultima alla sola dimensione della tecnologia, intesa, peraltro, come docile strumento produttivo, in grado di sempre incrementare la produzione di beni da immettere sul mercato. L'alienante e reificante separazione del prodotto dalla tecnologia con cui lo si ottiene è figlio legittimo di questo processo di sussunzione capitalistica, attraverso il quale la logica del profitto pretende di ridurre l'impresa scientifica ad un suo docile strumento per incrementare la produttività di un sistema economico basato sull'incremento della disuguaglianza sociale. Ma, d'altra parte, anche la tradizione delle libertà civili e sociali è stata, a sua volta, sistematicamente assoggettata al domino incontrastato del profitto, esautorando nuovamente queste libertà civili e sociali di ogni loro radicale autonomia. Se la tradizione della libertà moderna faceva appello all'autonomia del singolo uomo che si pensava libero ed autonomo, concependosi, appunto, quale essere autotrascendente la sua situazione storica concreta, entro la quale si percepiva come in grado di affermare la propria radicale libertà di vita e di pensiero, ebbene il capitalismo ha operato in modo da svuotare dall'interno questa pericolosa autonomia riducendo gli uomini al cielo - meramente formale ed astratto - della politica tradizionale in virtù della quale i diritti sono stati proiettati in una mitica dimensione ideologica, meramente ideale, cui corrispondeva un concreto - concretissimo - dominio effettivo sulla vita dei singoli uomini e delle singole donne. La comune e sistematica degenerazione dei Parlamenti moderni a luoghi deputati a recepire, passivamente, le decisioni dei mercati costituisce l'esito necessario e scontato di questo processo storico in cui la dittatura del profittò non solo svuota la conoscenza di ogni sua eventuali potenzialità critica e conoscitiva, ma riduce anche sistematicamente gli uomini a burattini di una logica - quella del mercato e del profitto - cui tutto e tutti devono piegarsi, senza poter mai reclamare alcun diritto effettivo. Conseguentemente la tradizione della conoscenza scientifica e la tradizione dei diritti civili e sociali sono state castrate e depotenziate, riducendole a delle larve che devono danzare unicamente ai ritmi, folli ed autodistruttivi, della cieca ed infinita produzione del profitto. Per questa ragione di fondo quando si considera la storia complessiva dell'impresa scientifica, come anche la storia della tradizione dei diritti civili e sociali non si può e non si deve mai prescindere dal pesante condizionamento reificante che queste tradizioni hanno subito da parte della logica e del dominio pervasivo del profitto che ha sistematicamente ridotto la conoscenza e la libertà a propri strumenti, eteronomi, del suo dominio. Ma sempre per questa medesima ragione occorre allora liberare criticamente queste stesse tradizioni da questi vicoli e da queste catene create dalla dittatura del profitto onde recuperarne il nucleo critico più vero ed incandescente.

 

 

4. Il valore teoretico della scienza: la sua criticità immanente

 

Se si considera l'importanza e il valore intrinseco della scienza, dal suo punto di vista squisitamente teoretico, è difficile non concordare con John Stuart Mill (106-1873) che lo individuava proprio nella sua criticità: «se si vietasse di dubitare della filosofia di Newton, - scrive Mill, in On liberty, del 1859 - gli uomini non potrebbero sentirsi così certi della sua verità come lo sono. Le nostre convinzioni più giustificate non riposano su altra salvaguardia che un invito permanente a tutto il mondo a dimostrarle infondate»[4]. Ma se si dubita criticamente e motivatamente di una teoria scientifica, questo dubbio può essere alimentato, in positivo, solo dalla capacità di saper poi proporre e presentare una teoria migliore rispetto a quella che viene criticata. Il gioco della scienza si basa essenzialmente su questa capacità di saper sempre intrecciare, per dirla con una felice indicazione di un epistemologo come Ludovico Geymonat (1908-1991), contestazione e creazione. La contestazione consente appunto di mettere in evidenza tutte le eventuali insufficienze critiche delle teorie egemoni e ancora dominanti, mentre la creazione consiste nella capacità di saper sostituire le teorie giudicate motivatamente inadeguate con teorie migliori. Il gioco della scienza si svolge entro questa polarità critica e costruttiva, anche se nel concreto dello sviluppo storico le due fasi possono anche presentarsi come affatto "sfasate", perché non sempre la capacità di saper individuare le insufficienze di una teoria si intreccia poi negli scienziati con la parallela capacità costruttiva di elaborare una nuova teoria, in grado di meglio rispondere a tutte le insufficienze della teoria precedente. In altri termini entro l'impresa scientifica non ha alcun ruolo l'appello alla auctoritas, fosse pure l'autorità di un Newton o di un Einstein. Le teorie di Newton e di Einstein possono invece essere sostenute, difese ed insegnate fin a quando non siamo in grado di elaborare delle teorie migliori. Da questo punto di vista allora il gioco dell'impresa scientifica potrebbe essere senz'altro avvicinato alla dinamica di crescita della tecnologia. Anche nell'ambito della produzione tecnologica appare infatti evidente che non si può mai presentare un determinato ritrovato tecnico concependolo, in assoluto, come il migliore. La sua efficacia pratica si colloca sempre entro un ben preciso contesto storico e tecnologico, alla luce del quale, eventualmente, quel determinato prodotto apparirà come il miglior prodotto in quella particolare fase di evoluzione. Ma anche se dovesse apparire come tale sappiamo anche come, inevitabilmente, ogni particolare ritrovato tecnico sia sempre soggetto a rettifiche continue, a miglioramenti, anche impercettibili, che ci consentono di trasformarlo via via in un prodotto migliore, innescando, appunto, un processo continuo e dinamico, entro il quale a nessun particolare prodotto può venire assegnato un valore storico assoluto. In genere gli epistemologi - tranne pochissime eccezioni - non hanno mai prestato una grande attenzione alle dinamiche di sviluppo della tecnologica, pensando che la stessa dimensione della tecnica potesse essere interpretata, à la Comte (1798-1857), come la "sorella minore" della scienza, cui spetterebbe un ruolo eminentemente applicativo e banausico rispetto a quanto affermato e scoperto dalle differenti teorie scientifiche. Questa svalutazione sistematica dell'autonomo valore culturale della tecnica ha lungamente pesato nella tradizione della riflessione epistemologica, dando così origine, soprattutto nel corso del Novecento, ad un'epistemologia teoreticista che non ha mai preso in seria considerazione il ruolo e la funzione degli strumenti tecnici entro la dinamica di sviluppo dell'impresa scientifica. Ma questo è stato uno sbaglio che ha indotto poi a costruire delle immagini assai claudicanti e manchevoli della stessa razionalità scientifica. Se invece si prende in debita considerazione la dimensione della tecnologia, allora l'aspetto della rettifica critica continua di un determinato prodotto appare come una dimensione irrinunciabile dell'impresa scientifica[5]. Il che non è privo di importanti conseguenze anche in relazione alla tradizionale immagine della verità scientifica. Da Galileo in poi si è infatti largamente diffusa ed affermata una tradizione di pensiero che ha sempre considerato la verità scientifica come qualcosa di assoluto, acronico, eterno ed immodificabile. Se si valuta questa tradizionale immagine della conoscenza scientifica alla luce della storia del pensiero umano, non è tuttavia difficile scorgere in questa mitica immagine della scienza una precisa traduzione della tradizionale immagine teologica della divinità. Per la tradizione teologica dio coincide infatti con la verità e in questo caso la verità e dio, pensati sempre come coincidenti, appaiono, necessariamente, come assolutamente immodificabili, collocati al di fuori della dimensione del cambiamento temporale, eterni e, appunto, immodificabili. Secondo la classica tradizione metafisica (e teologica) per definizione ciò che risulta vero non può che essere assoluto ed immodificabile, come appunto risulta essere dio che è eterno, assoluto, immodificabile e acronico.

Nel momento in cui la scienza moderna è nata è ben comprensibile che finisse per far proprio questa immagine metafisico-teologica della conoscenza. Questa, per esempio, fu proprio la mossa compiuta da Galileo che introducendo la sua celebre distinzione tra sapere intensive e sapere extensive sosteneva, appunto, che l'uomo, rispetto a dio, conosce infinitamente meno cose (proprio perché dio, per definizione le conosce tutte), mentre, di contro, quando l'uomo conosce il mondo tramite la scienza, allora, sosteneva appunto Galileo, le conosce intensivamente come dio. Perché? Proprio perché la scienza ci farebbe conoscere la natura in modo assoluto e immodificabile. Questa immagine assoluta della conoscenza scientifica ha del resto svolto anche una precisa funzione positiva nella vita dello stesso Galileo. Quando oramai lo scienziato pisano era stato travolto e sconfitto dal celebre processo inquisitoriale, nel corso del quale aveva accettato di abiurare le sue idee scientifiche pur di salvare la sua vita, ebbene, una volta condannato al carcere a vita, Galileo si consolava pensando di non aver comunque gettato via la sua vita, proprio perché pensava di aver comunque scoperto «una mezza dozzina di veri». Al di là dell'evidente modestia galileiana, è comunque un fatto che Galileo pensasse, sinceramente, che le sue scoperte, per quanto poco numerose, fossero comunque degli acquisti stabili ed immodificabili per l'eternità, proprio perché le verità che aveva scoperto sarebbero state delle verità assolute ed immodificabili. La tradizionale concezione cumulativista della storia della scienza nasce esattamente su questo terreno - galileiano - che carica le conoscenze scientifiche di una portata "assoluta" e "immodificabile", secondo la tradizionale immagine della verità teologico-metafisica. Ma la storia della scienza si è ben presto incaricata di mettere in crisi radicale questa immagine metafisica della conoscenza scientifica. Così, in epoca più recente, la rivoluzione convenzionalista ha sottolineato il ruolo costitutivo che le ipotesi scientifiche hanno per la costruzione delle teorie scientifiche. Il che ha indotto buona parte dei pensatori che hanno vissuto in presa diretta, tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, la cosiddetta "crisi delle scienze" a ritenere che allora le teorie scientifiche, non potendo più presentare le proprie conoscenze come assolute ed immodificabili, dovevano essere senz'altro svuotate di ogni portata conoscitiva, riducendole, sistematicamente, a strumenti predittivi onde meglio operare, pragmaticamente, nel mondo. La complessiva crisi di cultura che ha largamente egemonizzato e dominato il dibattito filosofico, epistemologico e culturale dei primi decenni del Novecento - in coincidenza sia con la nascita della fisica quantistica, sia con la pressoché parallela affermazione della teoria della relatività einsteiniana - si è così configurato come un movimento di pensiero che ha negato ogni portata conoscitiva alla scienza, attribuendole solo una valenza pragmatica, di effettiva utilità pratica. Ma in tal modo il problema della "verità", una volta sottratto, di principio, alla scienza veniva presentato come appannaggio esclusivo delle scienze dello spirito (secondo la soluzione neoidealista). Tuttavia, questa visione della natura complessiva della scienza non poteva non apparire come paradossale, propri perché finiva per privare la scienza di una delle sue componenti fondamentali, quella attinente la possibilità di incrementare la nostra conoscenza del mondo fisico. Per questa ragione, una volta elaborato un nuovo e rivoluzionario paradigma conoscitivo del mondo, attraverso la teoria quantistica e la fisica relativistica, occorreva semmai elaborare una nuova e più adeguata immagine epistemologica della conoscenza scientifica, in grado di tener conto delle nuove e rivoluzionarie teorie, senza tuttavia privare la scienza della sua autentica portata conoscitiva. Questo compito doveva peraltro essere svolto tenendo presente sia la complessità dell'impresa scientifica che, come si è accennato, non è mai riducibile alla sola componente della scienza teorica, ma deve saper comprendere anche il ruolo e la funzione che la dimensione tecnologica esercita entro l'impresa scientifica. Del resto nell'epoca contemporanea questo rapporto tra la scienza e la tecnologia è diventato così pervasivo e, invero, sempre più costitutivo di pressoché tutti i più avanzati e sofisticati programmi di ricerca scientifici che sembrerebbe più adeguato parlare oggi senz'altro delle tecno-scienze, riconoscendo, in modo del tutto esplicito, che la dimensione teorica della scienza e quella tecnologica non sono più arbitrariamente separabili. Ma per elaborare una nuova, più persuasiva ed adeguata immagine della conoscenza scientifica contemporanea occorre allora prendere in debita considerazione anche le dinamiche specifiche dello sviluppo tecnologico del sapere scientifico, come si è precedentemente accennato. Se si è in grado di sviluppare una tale disamina diventa allora agevole rendersi conto che la natura stessa della conoscenza scientifica non può più essere pensata nei termini tradizionali - e metafisici - dell'assolutezza, proprio perché il sapere cui mette capo la scienza nel corso del suo sviluppo concettuale e tecnologico è sempre un sapere relativo, flessibile e plastico, in grado di configurare un determinato sapere oggettivo che vale solo ed esclusivamente entro un certo e delimitato ambito di indagine. Non solo: questa disamina ci consente anche di meglio comprendere che gli oggetti stessi che ciascuna disciplina scientifica costruisce per indagare un determinato ambito del mondo fisico possiedono sempre una loro specifica normatività che dipende essenzialmente dalla loro stessa formalità.

In questa prospettiva la tradizionale e pur diffusissima immagine baconiana della scienza quale mera generalizzazione empirica di alcuni fatti sperimentali, si mostra del tutto insufficiente a rendere ragione della complessa natura dell'oggetto specifico della conoscenza scientifica. Quest'ultima non nasce infatti da un'attenta descrizione del mondo, ma, al contrario, scaturisce solo da un complesso intreccio problematico tra una nostra nuova teoria, che ci consente di guardare al mondo da un innovativo punto di vista teorico, e un rigoroso controllo sperimentale, mediante il quale possiamo appunto controllare - verificando o falsificando - molteplici assunti predittivi che si ricavano, più o meno direttamente, dal nostro apparato teorico. In questa nuova prospettiva epistemologica il gioco della scienza appare come profondamente articolato e assai complesso, proprio perché entrano in gioco differenti componenti, nel cui intreccio problematico si viene appunto definendo l'oggettività della conoscenza scientifica. Oggettività che non può più essere interpretata né alla luce dei tradizionali e metafisici paradigmi dell'assolutezza della verità scientifica, ma che, d'altro canto, non può neppure essere ricondotta, secondo una tipica deriva del pensiero contemporaneo, alla dimensione del diffuso relativismo, collocandosi sul piano della mera opinione. Al contrario, la conoscenza scientifica è invece in grado di individuare una verità oggettiva ed intersoggettiva che risulta essere tale entro un ambito teoricamente delimitato e sperimentalmente controllato. Ma l'oggettività del sapere scientifico non implica né l'assolutezza né il relativismo della conoscenza umana, perché, semmai, si colloca su un differente piano, appunto quello della verità relativa, che la scienza è sempre in grado di approfondire criticamente anche innovando, in modo rivoluzionario, gli assunti che sembrano essere i più stabili e garantiti. In tal modo il gioco della scienza ci riporta nuovamente al ruolo che la criticità svolge all'interno del cambiamento concettuale scientifico. E proprio questo è l'aspetto decisamente più importante della tradizione scientifica che ha contraddistinto, nel bene e nel male, la storia della modernità occidentale. Proprio perché grazie alla scienza si è introdotto un nuovo stile mentale e civile in virtù del quale - per dirla con un filosofo come Giulio Preti (1911-1972) «la verità scientifica è un valore che si appella ad una libera ideale universalità umana in generale. "Libera" nel senso che essa non riconosce alcuna autorità come tale - né di uomini, né di dotti, né di tradizione: che anche un solo scienziato può riconoscerla e farla valere contro le opinioni più venerate e accreditate. "Ideale" perché essa è, in un certo senso, astratta, cioè (meglio) formale: i suoi criteri sono criteri formali, in un certo senso a priori, rispetto ad ogni possibile esperienza e ad ogni possibile discorso»[6]. Insomma, secondo questa visione la scienza non può mai essere sotto tutela e in essa non vi sono auctoritas, proprio perché la verità stessa non ha padroni ed è sempre di tutti. Insomma, proprio perché - per dirla con le parole di un poeta del Seicento come John Milton - «l'opinione, negli uomini buoni, non è altro che la conoscenza stessa che si vien formando»[7]. Nella misura in cui si è appunto in grado di pensare alle opinioni come conoscenza in formazione, allora il ruolo euristico della criticità immanente della scienza torna, evidentemente, in prima evidenza. Proprio questo è l'aspetto forse più urticante e, invero, indigeribile del sapere scientifico rispetto alla tradizionale impostazione metafisica, che è sempre alla ricerca di Assoluti (da scriversi sempre con la maiuscola, maiuscola con la quale si cerca, appunto, di mitizzare - e metafisicizzare! - sistematicamente i molteplici aspetti del pensiero e della realtà storica, trasformando così le differenti tecnologie nella Tecnologia, la molteplicità delle scienze nella Scienza, l'economia nell'Economia, gli apparati nell'Apparato, etc., etc.). Al contrario, lo spirito scientifico delle tecno-scienze contemporanee si nutre, invece, di un'intelligenza con la minuscola in cui l'intelletto umano sonda sempre criticamente la sordità strorica dell'esperienza umana, donandoci, passo dopo passo, alcuni pochi, delimitati, acquisti conoscitivi intersoggettivi. Conseguentemente la stessa nostra immagine della conoscenza deve diventare molto più plastica, critica ed articolata, mettendoci in condizione di ben comprendere lo specifico carattere oggettivo delle conoscenze, proprio perché, come amava ripetere anche Karl Marx «l'ignoranza non è mai un argomento».

 

 

5. Il valore euristico-civile della democrazia in una società aperta di liberi ed uguali

 

Ma il ruolo della criticità non può essere confinato al solo ambito, pur assai rilevante, della crescita del saper scientifico, proprio perché, per dirla ancora una volta con Mill, «la costante abitudine a correggere e completare la propria opinione confrontandola con le altrui non solo non causa dubbi ed esitazioni nel tradurla in pratica, ma anzi è l'unico fondamento stabile di una corretta fiducia in essa; poiché, conoscendo tutto ciò che può, almeno nella misura del prevedibile, venir detto contro di noi, e avendo preso una posizione rispetto a tutti i nostri oppositori - sapendo di aver cercato le obiezioni e le difficoltà invece di evitarle, e di aver preso in esame ogni punto di vista - abbiamo il diritto di considerare il nostro giudizio migliore di quello di qualsiasi persona, o gruppo di persone, che non abbia seguito una procedura analoga»[8]. Spazi civili senza dubbio privilegiati dove una tale preziosa dialettica di costante confronto critico tra posizioni diverse (ed anche opposte) si può e si deve esercitare programmaticamente dovrebbero appunto essere proprio i vari parlamenti delle società democratiche, in cui questo confronto critico dovrebbe costituire un obiettivo civile strategico, privilegiato e decisivo. Il fatto che spesso e volentieri i parlamenti di molte società siano invece ridotti ad aule sorde e vuote, dove non si svolge alcun dialogo e dove il disprezzo sistematico dell'opinione altrui è manifestato in mille modi, costituisce una manifestazione clamorosa della crisi in cui versano molte società apparentemente democratiche in cui, in realtà, i rappresentanti che siedono nei diversi parlamenti non rappresentano gli elettori, bensi solo taluni, assai ristretti, ma assai consolidati, gruppi di potere. Ma al di là della gravissima crisi di questi luoghi simbolici degli stati occidentali contemporanei, l'incremento della possibilità della critica entro una società aperta degna di questo nome, deve allora trovare un suo luogo privilegiato di sviluppo e di tutela civile proprio nelle scuole pubbliche - d'ogni ordine e grado, da quelle primarie fino alle università - in cui le nuove generazioni dovrebbero appunto essere educate al dialogo e al confronto critico, onde formare i giovani cittadini ad una completa autonomia di giudizio e di pensiero. Anche da questo specifico punto di vista emerge allora come l'esercizio puntuale della democrazia richieda sempre la diffusione di un sapere specifico che non può, a sua volta, non radicarsi in un articolato percorso di formazione libero ed autonomo, sempre pienamente rispettoso dell'autotrascendenza critica di ciascuna singolo individuo. Anzi, da questo specifico punto di vista può allora cogliersi un aspetto decisivo che concerne non solo la moralità del singolo individuo, ma che concerne anche il valore culturale specifico della stessa impresa scientifica. Se infatti si valutano la scienza e la libertà del singolo dal punto di vista dell'incremento della libera criticità, non è difficile vedere come entrambi questi processi - che hanno messo capo alla tradizione della conoscenza e a quella delle libertà civili - rinviino ad un medesimo assunto strategico decisivo che qualifica la stessa modernità nel suo complesso. Infatti tanto la scienza quanto la libertà dei moderni si presentano come autovalori che sono autofondate. La scienza è un autovalore che si autofonda proprio perché trova i propri criteri di verità entro la sua stessa storia concettuale e sperimentale, mente, di contro, anche la libertà morale del singolo - quella che la tradizione tedesca con Kant individuava nella Moralität - costituisce, a sua volta, un autovalore che si autofonda. Di conseguenza, perlomeno da questo punto di vista, scienza e libertà costituiscono entrambi, nuovamente, due momenti profondamente intrecciati - tendenzialmente anche coincidenti - di libera universalità autofondantesi e questo è lo "scandalo" che le unisce profondamente a fronte di tutta la plurimillenaria tradizione teologico-metafisica invariabilmente basata sull'autorità e la sua intransigente difesa. Il che spiega il carattere intrinsecamente e permanentemente rivoluzionario tanto della conoscenza quanto della stessa libertà, giacché entrambi questi atteggiamenti - a fronte di una consolidata tradizione di pensiero oppure anche a fronte di un'altrettanto consolidata tradizione di costume - si configurano sempre come dei principi autonomi, indipendenti e superiori, come un momento di critica, di negazione e quindi di movimento. Proprio per questo conoscenza e libertà operano sempre entro una libera universalità, giacché entrambi si autofondano sull'intelligenza e sulla volontà del singolo uomo. Proprio per questo costituiscono l'obiettivo polemico privilegiato della tradizionale mentalità metafisico-teologica e anche di tutti i molteplici conservatorismi sociali: perché quel loro convergente appello alla libera universalità configura una situazione critica in cui conoscenza e moralità si autofondano ponendo in essere - per dirla con Kant - un processo dinamico di complessiva «autoliberazione dallo stato di minorità intellettuale volontaria» che prelude, appunto, all'instaurazione di un regnum hominis combattuto da tutti coloro che vorrebbero invece far sempre vivere gli uomini sotto la loro tutela.

 

 

 

Si chiede a tutti coloro che ricevono la rivista di trasmetterla ai loro amici e conoscenti.

I contributi vanno inviati al coordinatore Baldo Italo Francesco: stoa@ libero.it

 

 


* Ordinario di Filosofia teoretica della Facoltà di Scienze Fisiche, Matematiche e Naturali dell'Univerità degli Studi dell'Insubria di Varese, Direttore scientifico del «Centro Internaionale Insubrico "C. Cattaneo" e "G. Preti"» di Varese, Direttore della storica rivista «Il Protagora», socio titolare dell'«Académie Internationale de Philosophie des Sciences» di Bruxelles.
[1] Bertrand Russell, La visione scientifica del mondo, trad. it. di Emilio A. G. Loliva col titolo Panorama scientifico, nuova edizione riveduta da Maurizio Mamiani, Laterza, Roma-Bari 1982, p. 5.
[2] Friedrich Engels, L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato. In relazione alle ricerche di Lewis H. MOrgan, trad. it. di Mila Lentini, Introduzione di Valentino Parlato, Newton Compton editori, Roma 1976, in particolare cfr. le pp. 52-108 dedicate ad una disamina storica della famiglia umana.
[3] Karl Marx, Il capitale. Critica dell'economia politica, introduzione di Maurice Dobb, traduzione di Delio Cantimori, con una cronologia dell'opera economica di Marx a cura di Giorgio Backhaus, Einaudi, Torino 1975, 3 libri in 5 tomi, vol. I, p. 43.
[4] John Stuart Mill, Saggio sulla libertà, trad. it. di Stefano Magistretti, il Saggiatore, Milano 1981, p. 45.
[5] Questo aspetto non era del resto affatto sfuggito a Galileo che, non a caso, nel famoso esordio del suo capolavoro scientifico, le Dimostrazioni matematiche introno a due nuove scienze (del 1638), ha espressamente voluto inaugurare il suo volume con un deciso e straordinario elogio del valore culturale e filosofico della tecnologia per l'approfondimento del quale sia lecito rinviare sia alla fortunata monografia di Ludovico Geymonat, Galileo Galilei, Einaudi, Torino 1957, sia al mio studio Galileo «filosofo geometra», Rusconi, Milano 1994.
[6] Giulio Preti, Retorica e logica, Einaudi, Torino 1968, p. 197, corsivo nel testo.
[7] John Milton, Areopagitica. Discorso per la libertà della stampa, , trad. it., Prefazione e note di Salvatore Breglia, edizione completamente riveduta e accresciuta a cura di Giulio Giorello, Editori Laterza, Roma-Bari 1987, p. 67.
[8] J. S. Mill, Saggio sulla libertà, trad. it. cit., p. 45.


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