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La scomparsa dei lavoratori come "classe dirigente": responsabili non solo i sindacati

Di Giorgio Langella Giovedi 29 Agosto 2013 alle 08:10 | 0 commenti

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Vorrei prendere spunto dalla nota del direttore su Tobias Piller e sulle sue affermazioni sui sindacati italiani per fare alcune considerazioni. Mi sembra che, per quanto appare dall'articolo in questione, si sia puntato il dito contro i sindacati italiani e la loro mancanza di cultura aziendale. La cosa può essere vera ed è il risultato di un progressivo impoverimento (anche o soprattutto) culturale della politica e dell'azione sindacale nel nostro paese.

Si è progressivamente dimenticato (una perdita che si è subita come inevitabile) un concetto che è stato fondamentale per le conquiste dei lavoratori: la coscienza di classe. È diventata, questa solidarietà tra lavoratori, un “arnese del passato”, qualcosa di superato, di poco “moderno”. Ma era il motore di quella evoluzione (o elevazione) dei lavoratori da individui con una “mentalità di schiavi” a classe che raggiungeva la “mentalità di produttori”.

I lavoratori, organizzati e solidali tra loro, diventavano “classe dirigente” responsabile dello sviluppo del paese, un ruolo che spettava loro e che la Costituzione riconosceva (e ancora riconosce).

Negli ultimi trent'anni 'è stata un'involuzione e si è andata affievolendo la “spinta propulsiva” delle lotte del movimento dei lavoratori. A partire dallo sciopero della FIAT dei primi anni '80 e dalla sconfitta al referendum sulla scala mobile, è stato, per chi lavora, un susseguirsi di arretramenti e di conseguente perdita di diritti.

La responsabilità è, certo, di gran parte dei sindacati maggiori che hanno opposto una resistenza troppo debole all'attacco ai diritti conquistati, ma anche e soprattutto di una trasformazione dei grandi partiti di massa (che davano risposte politiche alle richieste delle organizzazioni dei lavoratori) in insiemi di comitati di affari e cordate elettorali.

Il suicidio del PCI ad opera di Occhetto e di gran parte dell'allora gruppo dirigente ha, certamente, fatto la sua parte. Sparita una grande organizzazione che operava per la trasformazione della società, c'è stata un adeguamento generalizzato al “pensiero dominante”, al mercato che si sarebbe auto-regolato, a quel sistema capitalista che era diventato l'unico riferimento avendo vinto la guerra fredda. E questa omologazione fu subita e accettata (a volte anche ricercata) da gran parte del movimento sindacale.

A mio avviso c'è stato il tentativo (in gran parte riuscito) di stabilire una netta differenziazione di ruoli che dovevano diventare tra loro complementari. I padroni (veri vincitori di quella fase) si “assumevano” l'incarico di governare e pianificare il sistema produttivo, le aziende, le fabbriche, la finanza, l'economia. Avevano il ruolo di comando lasciando agli altri due “attori” ruoli subalterni. La politica avrebbe assunto il ruolo del “bravo amministratore” (cosa per altro mai raggiunta) abdicando alla sua vera missione di progettare e costruire il futuro della nazione (che si sarebbe adeguato alle regole del  mercato). I sindacati si sarebbero dovuti limitare a contrattare (e concertare) condizioni di lavoro un po' meno peggiori di quelle prospettate (ma molto peggiori rispetto a quelle conquistate con le lotte dei decenni precedenti).

La distruzione della coscienza e della solidarietà di classe ha portato all'eliminazione del conflitto e al sostanziale abbandono di quella “capacità di ragionare come produttori” (e, nelle trattative, di esserlo) da parte della maggioranza dei sindacati. Si è persa quell'aspirazione di “essere più bravi dei padroni”, di essere in grado di progettare una società diversa e migliore di quella capitalista, di riuscire a pianificare lo sviluppo economico del paese.

Tutto doveva diventare  più ordinato (politica e sindacati avrebbero assunto un ruolo determinato e limitato) in quella che doveva essere la fine del conflitto sociale (o della lotta di classe, usando termini ormai considerati obsoleti). Era la teorizzata “fine della storia”.

Ma la lotta di classe c'è stata, condotta e controllata dai padroni. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Le delocalizzazioni selvagge, i trasferimenti di capitale dalla produzione alla speculazione, la massiccia esportazione di tali capitali nei paradisi fiscali, la chiusura ingiustificata dei siti produttivi, la mancanza di un'adeguata risposta da parte del movimento dei lavoratori hanno portato a quello che è un vero e proprio fallimento del sistema.

Le conseguenze sono nove milioni di cittadini senza lavoro, con lavoro precario, in cassa integrazione o sottopagati; un sistema produttivo incapace di sopravvivere; una concentrazione della ricchezza nelle mani (nelle tasche) di un numero ristretto di privilegiati più o meno onesti; una povertà crescente che colpisce strati sempre più vasti della popolazione; l'incapacità di uscire dalla crisi.

Responsabilità dei sindacati? Può darsi, ma non di tutti, perché non tutti (sindacati e singoli sindacalisti) si sono adeguati alla stessa maniera e alcuni si sono rifiutati di farlo. Ma poi, perché puntare il dito sempre e solo verso parti che sono state relegate a un ruolo da comprimario? Perché, nel nostro paese, è così difficile richiamare alla loro responsabilità i padroni? Perché quando si parla di casta e ci si riferisce sempre quella politica o a quella sindacale (considerata “l'altra casta” per antonomasia) e si lasciano sempre fuori quell'insieme di imprenditori e di affaristi vari che si sono arricchiti (in denaro e potere) e hanno impoverito il paese speculando, evadendo, portando all'estero capitali e lavoro? Sono loro i principali responsabili della situazione odierna.

Hanno fatto di tutto per distruggere i sindacati, per “disarmare” i lavoratori e ridurli a una mentalità servile. Hanno utilizzato tutte le maniere possibili dalla manipolazione dell'informazione, alla corruzione, alle minacce, al ricatto, all'impoverimento materiale e culturale.

Quindi, critichiamo pure i sindacati (sarebbe meglio distinguere chi, come organizzazione o come singolo sindacalista, continua ad esercitare il proprio ruolo di difesa e crescita dei lavoratori con dignità) ma diciamo anche che, i veri responsabili della crisi che stiamo subendo e pagando, sono i padroni.

Si badi bene, i “padroni” e non quegli imprenditori onesti che pagano le tasse e che vivono con rassegnazione (e spesso con disperazione) la situazione odierna.

I colpevoli, è bene ribadirlo, li troviamo tra quelli che trasferiscono all'estero il lavoro e i macchinari e che chiudono gli stabilimenti durante la pausa d'agosto (sono di questi giorni i casi della Firem di Modena, della Dometic di Forlì, della Hydronic Liftdi Pero). Lo fanno di nascosto, come ladri.

Leggi tutti gli articoli su: sindacati, Tobias Piller

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