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La denuncia del PdCI: "politici e giornalisti stravolgono la Costituzione Italiana"

Di Redazione VicenzaPiù Venerdi 25 Ottobre 2013 alle 12:00 | 0 commenti

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PdCI Vicenza - Oltre i due terzi dei senatori hanno approvato, in seconda lettura, il ddl costituzionale che istituisce il Comitato parlamentare per le riforme costituzionali e modifica pesantemente l'articolo 138 che stabilisce le regole per modificare la carta costituzionale. Un altro passo verso lo smantellamento della nostra Costituzione.

Queste sono le “riforme” che vogliono i signorotti che siedono in parlamento appartenenti a vari gruppi (PD, PDL, Lega, Scelta civica soprattutto). “Riforme” che tendono a svuotare la prima legge dello stato e renderla inefficace. “Riforme” che vengono date in mano a una commissione di una quarantina di “saggi” (tra i quali 5 indagati per concorsi universitari truccati) e che verranno approvate da un parlamento di nominati tra i quali ci sono vari inquisiti e condannati (anche in maniera definitiva). Sono le “riforme” richiamate (o “imposte”?) dal presidente Napolitano che, come lui stesso dice, si è fatto rieleggere (lui dice controvoglia) proprio per questo scopo. Presidente Napolitano che non perde occasione per attaccare chi vuole difendere la Costituzione e attuarla (cosa che dovrebbe essere il suo principale obiettivo).

Così, dopo aver introdotto nel silenzio dei più il pareggio di bilancio come norma costituzionale, il parlamento, in nome di una “stabilità” fasulla che si basa su compromessi di basso livello, sta modificando le basi della Costituzione per poterla modificare come e quando vogliono.

L'obiettivo è chiaro: permettere la creazione di un sistema nel quale il potere esecutivo (in mano a un “uomo forte”) abbia la prevalenza sugli altri poteri controllandoli e annullandone le prerogative. È un disegno molto poco democratico.

Sempre ieri un editoriale del Corriere della Sera firmato da Piero Ostellino attaccava tutta la Costituzione (anche i principi fondamentali) chiedendone, di fatto, la cancellazione. Napolitano, per conto suo, rincarava la dose dicendo, per quelle che lui chiama “riforme ineludibili”, che non si possono giustificare e subire posizioni difensive e conservatrici. Per quello che dovrebbe essere il garante della Costituzione chi la vuole difendere (e attuare) è un “conservatore” che vuole il male del paese. Una posizione alquanto bizzarra (e pericolosa) alla quale possiamo rispondere che si, siamo conservatori perché vogliamo conservare quanto la Costituzione stabilisce. Lo siamo perché crediamo che la Costituzione fissi regole giuste, diritti universali, principi e valori di altissimo livello, equità, solidarietà e uguaglianza che non possono essere modificati soprattutto da quella imbarazzante accolita di politicanti mediocri che occupa il parlamento.

Vorremmo anche sapere chi sono i 218 senatori che vogliono affossare la Costituzione. Ci dicano come hanno votato i nominati di quello che fu il centrosinistra (in particolare del PD che, adesso, è la principale stampella di un governo che si dimostra liberista e reazionario). Ci spieghino, quelli che parlano tanto di democrazia, perché hanno contribuito ad approvare una legge che, di fatto, permette di stravolgere la carta costituzionale senza che sia stata interamente attuata. Lo chiediamo in primo luogo a Laura Puppato, a Rosanna Filippin, a Giorgio Santini, a Felice Casson (che si è astenuto) senatori PD “eletti” in Veneto. Diteci cosa e come avete votato. Siamo curiosi.

Apprendiamo, inoltre, con soddisfazione del nuovo comunicato della CGIL sulla questione dello stravolgimento della Costituzione. Dopo i tentennamenti di quel sindacato (che non ha aderito alla manifestazione del 12 ottobre) la posizione assunta oggi ci sembra chiara e condivisibile. Diamo il benvenuto alla CGIL, tra quei “conservatori” che vogliono difendere una Costituzione che, se venisse pienamente applicata, significherebbe una vera rivoluzione.

 

 

Editoriale del Corriere della Sera del 23 ottobre 2013 di Pietro Ostellino

Un Paese nel quale il pensiero, le opinioni, le parole devono ubbidire a una certa Ortodossia pubblica, imposta per legge, non è un Paese libero. L’Italia - con gli innumerevoli divieti che, opponendo un ostacolo alla libera manifestazione del pensiero, prefigurano, di converso, il reato d’opinione - lo sta diventando.

L’ignoranza dei fondamenti stessi della democrazia liberale ha prodotto una «bolla culturale», generatrice, a sua volta, di una «inflazione legislativa», che sta progressivamente portando il Paese alla fine delle sue (già fragili) libertà.

L’eccessivo numero di leggi che, spesso, si sovrappongono e/o si contraddicono l’un l’altra, è l’effetto di due cause concomitanti. Prima: della crescita esponenziale, per legge ordinaria, di una tendenza allo statalismo già presente nella Carta fondativa della Repubblica. Se si riflette sul fatto che nella stesura della Prima parte della Costituzione - quella sui diritti - ebbe un grande ruolo Palmiro Togliatti, l’uomo che avrebbe voluto fare dell’Italia una democrazia popolare sul modello dell’Urss, si spiegano le ragioni del disastro verso il quale la Repubblica, nata dalla Resistenza al fascismo, si sta avviando.

Secondo: la dilatazione del potere discrezionale della magistratura, diventata, con le sue sentenze in nome del popolo, il nuovo «sovrano assoluto»; che ha spogliato, di fatto, il Parlamento dell’esercizio della sovranità popolare e vanifica il potere del governo di gestire il Paese; unifica in sé tutti e tre i poteri dello Stato (legislativo, esecutivo, giudiziario) che dovrebbero restare separati e divisi secondo il moderno costituzionalismo.

Si vuole creare - attraverso la via del costruttivismo politico e della palingenesi giudiziaria - un uomo artificiale, «l’uomo democratico». Si sta producendo un cittadino - che si crede iper-democratico, ma è solo suddito - fra gli entusiasmi della borghesia salottiera; l’indifferentismo del proletariato, che sogna la rivoluzione socialista; la pigrizia dei media, che girano intorno ai problemi come gattini ciechi; i silenzi del centrodestra, concentrato sull’ombelico del proprio padre-padrone; la nullità del centrosinistra che si aggrappa a chiunque - persino al Papa gesuita! - si mostri ostile alla modernità, al capitalismo, al mercato, alla ricchezza, e aperto al pauperismo.

Siamo inclini ad attribuire populisticamente tutte le colpe alla politica o, meglio, ai cattivi politici, che pure non ne sono esenti, e non ci accorgiamo che ci stiamo scavando noi stessi la fossa sotto i piedi, non solo votando certi personaggi, ma ispirandone culturalmente e politicamente la cattiva politica.

La «democrazia dei partiti» - col suo carico di progressismo immaginario, di costruttivismo, di vocazione autoritaria e totalitaria, di illiberalismo - non è peggiore del Paese. È il Paese che si porta appresso tutte le tare della sua storia: dalla divisione fra Guelfi e Ghibellini, che è adesso quella fra berlusconiani e antiberlusconiani, alla (mancata) Riforma protestante e alla diffusione della doppia morale (cattolica e controriformista); dal trasformismo, che aveva decretato, nel 1876, la morte della Destra storica (e cavouriana) e creato le premesse del fascismo, al fascismo stesso e, da questo, all’antifascismo; dalla fine del comunismo, come filosofia della storia, alla sopravvivenza dei comunisti come protagonisti della nostra realtà quotidiana: sul filo del trasformismo, hanno cambiato nome, ma non la vocazione collettivista, dirigista e statalista, che ci ha portato, con l’eccesso di spesa pubblica, sull’orlo della bancarotta.

Un Paese allo sfascio, ha scritto Ernesto Galli della Loggia su queste stesse colonne, lunedì scorso. Un Paese, aggiungo io, che non sa risollevarsi, e non ci prova neppure, perché la sua crisi, politica, economica, civile, è culturale; a sua volta, il prodotto di una scuola passatista e antimodernista, ancora governata dai reduci del gramscismo e dal cosiddetto cattolicesimo democratico, parodia solidaristica, confessionale, parimenti velleitaria e fondamentalmente totalitaria, dell’egualitarismo comunista.

Chi denuncia questo stato di cose, e il fatto che Berlusconi abbia tradito le sue stesse promesse di cambiarle, è condannato, con un salto logico che è una contraddizione in termini, come berlusconiano. In tali condizioni, non si vede come se ne possa uscire, si capisce perché tanti giovani preferiscano emigrare che crescere in Italia e molti talenti non pensino affatto di tornarci dopo essersene andati.

 

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