La buona squola: cerchiamone le... traccie
Mercoledi 21 Giugno 2017 alle 15:24 | 0 commenti
Alessandro Manzoni all'indomani dell'Unità d'Italia suggerì che nelle scuole del Regno si utilizzasse solo il favellar toscano, raccogliendo quella grande eredità che da Dante Alighieri aveva percorso tutte le espressioni culturali e scientifiche. Non ebbero il successo sperato le idee sull'uso della lingua del vicentino Gian Giorgio Trissino, che aveva riscoperto e tradotto il De vulgari eloquentia e che le espresse nel dialogo Il Castellano e soprattutto nella l'Epistola de le lettere nuovamente aggiunte a la lingua italiana, dove propone anche suggerimenti sull'ortografia. La lingua che si impose a livello scolastico e culturale in genere fu quella toscana.
Certo non mancarono poeti, scrittori che espressero i loro sentimenti e storie in lingue come la napoletana, la veneziana, la sicula, e nella vicentina, ma non s'imposero come modello di lingua, nonostante che se ne discutesse anche a Vicenza con la Létara de Andrèa Alverà de Vicenza, dirèta al so amigo è compatrioto A. Goldin, su la maniera de scrìvare el dialèto visentin è pèr determinare stabilmente la vèra pronuncia Vicenza, Editrice Veneta, 2008.
Anche oggi nel Veneto l'amministrazione regionale tende a introdurre "il veneto" come lingua", ma si parla più di un'idea che non di una prospettiva realizzabile, dato che le lingue locali, i dialetti, le parlate, a cui si aggiungono anche i gerghi, sono talmente tanti, come lo erano all'epoca di Manzoni, che è ancora attuale la proposta dello scrittore milanese. Essa unificava e unifica, soprattutto perché consente la comprensione reciproca tra le tante parti di cui si compone l'Italia linguistica. Ciò pur con tutte le difficoltà che possiamo esprimere e trovare. Ma chi sa che cosa sia "ol ci" oppure "il criolo"? Meglio utilizzare i termini italiani, quelli citati non sono nemmeno quasi più conosciuti nelle loro zone (Bergamo e Bassa Padovana zona Megliadino S.V./Piacenza d'Adige).
Proprio lo Stato si era assunto il compito di formare maestri capaci di trasmettere la lingua italiana, il favellar toscano. Fino agli anni settanta del secolo scorso la lingua italiana nelle scuole, grazie anche a valenti scrittori come E. de Amicis, fu quella amata dal Manzoni che per impararla meglio "sciacquò i panni in Arno".
Negli anni ricordati vi fu una ripresa del valore delle parlate locali, dei dialetti, celebre la ripresa del pavano di Angelo Beolco, ma non ebbero successo e la scuola continuò a parlare l'italiano. Ma nel frattempo si consumava anche un altro "delitto": la negazione del valore della grammatica, della parafrasi dei poemi classici, dello studio a memoria, ecc. considerati "vecchiume da cambiare". Infatti di riforma in riforma si è giunti all'ultima e si percepisce sempre di più che la scuola non insegna la lingua italiana, troppo occupata in progetti di formazione, di collegamento sociale, che sono certo importanti, ma non dovrebbero mettere in secondo piano il grandissimo valore del "parlar correttamente" la lingua che è considerata comune in uno Stato e ciò senza togliere nulla alle lingue locali, che possono come in Alto Adige essere studiare a fianco della propria, insieme all'ormai indispensabile inglese.
A parole tutto sembra dare ragione, ma segnali inquietanti appaiono perfino nei documenti ufficiali, come attestato dal sito del Ministero, dove in una riga si usa correttamente l'italiano "tracce" e subito sotto in modo errato "traccie" per la prima prova dell'esame di maturità .
Speriamo che si tratti solo di un errore casuale, che stona in un sito ufficiale, ma può pure essere perdonato, pur sottolineandolo con "matita blu". In realtà quello che temiamo è che non sia proprio casuale e allora dovremo ripensare nelle scuole la formazione linguistica a partire dalla ripresa dello studio dell'ortografia e proseguendolo con i mezzi tradizionali che hanno formato veramente alla buona comunicazione il popolo italiano perché: "La scuola è l'unica differenza che c'è tra l'uomo e gli animali" (Lettera a una professoressa (Firenze, L.E.F.. 1976, p.112).
Oggi però si sono fatte anche scuole per animali, dove non è certo ammesso l'errore: sic transit sapientia
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