Quotidiano | Categorie: Vita gay vicentina

Infelice chi è diverso

Di Anna Barbara Grotto Sabato 8 Marzo 2014 alle 18:33 | 0 commenti

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Siamo andati a vedere la prima a Vicenza del docu-film di Gianni Amelio “Felice chi è diverso” in programmazione al cinema Odeon proprio questo weekend: ecco la nostra recensione.

È arrivato anche a Vicenza, fra le prime città in Italia dopo l’anteprima nazionale del 26 febbraio al Maxxi di Roma, il docu-film di Gianni Amelio, che narra, attraverso una serie di interviste ad omosessuali, ora anziani, e di documenti storici, la vita dei gay italiani dal fascismo agli anni ’70.

Dimentichiamoci “Il matrimonio del mio migliore amico”, dimentichiamoci “Priscilla - La regina del deserto”, per citare un paio di film molto popolari; ma dimentichiamoci anche i film di Ferzan Özpetek e dimentichiamoci il recente (e notevole) “Philomena”.

Per provare ad assistere a mente sgombra al docu-film di Amelio, dobbiamo dimenticarci che esistono i gay consapevoli e visibili, e le trans colorate ed autoironiche; dobbiamo scordare la coscienza, anche in Italia, di una certa “potenza culturale gay” (che i detrattori chiamano “lobby”), come dobbiamo accantonare la denuncia sociale di chi, colpevolmente, ha contribuito a creare ciò che ora viene definito “omofobia”. E beh dobbiamo scordarci completamente anche dell’esistenza delle lesbiche.

Ecco, ora siamo pronti ad entrare in sala.

Occorre provare a calarci nella mentalità dell’epoca quando sentiamo i gay di allora, ora ottantenni, parlare di “questa condizione in cui mi ritrovo”, quando li sentiamo omettere il termine “omosessuale” a favore di un meno compromettente “così”, quando narrano dei tentativi di suicidio, quando leggiamo i titoli dei documenti giornalistici che vediamo passare sullo schermo come le slide a scuola: la palude del vizio, il turpe mercato, lo squallore, gli invertiti, i capovolti. Si parla di torture e segregazioni in famiglia nel tentativo di rendere il figlio “normale”, fino a manicomi con elettroshock ed altre atrocità del genere. Si vede una madre che racconta di quando il medico le disse che suo figlio “era così” e che per questo avrebbe avuto una vita infelice, perché faceva parte di una classe sociale medio-bassa dove “quelle cose” non sono ammesse. C’è chi, tra gli intervistati, dice di aver rifiutato il “ruolo di bisessuale”, escamotage che molti utilizzavano per sposarsi sì con una donna, ma poi consumare scappatelle omosessuali di nascosto. Qualcuno racconta di essersi sposato con un’amica lesbica per riuscire a viversi senza finzioni, ma avere comunque un riconoscimento sociale e gli assegni familiari. Appare, così, l’unica lesbica del film, fra l’altro alle prese coi mestieri di casa.
C’è chi paragona la propria omosessualità ad un handicap con cui provare a convivere: “Mi dissero: se lei fosse nato zoppo? Avrebbe imparato comunque a camminare come poteva.”. C’è chi si dice fortunato ad essere rimasto orfano in tenera età, perché ciò gli ha evitato lo strazio di rivelarsi come omosessuale in famiglia.

Una certa riflessione la suggerisce un intervistato, quando afferma che il termine “gay” ha imposto una sorta di appiattimento: dice che prima c’erano moltissimi appellativi dialettali, che ora percepiamo come offensivi ma che definivano “meglio” sfumature e caratteristiche. Come c’è chi parla di una maggior libertà (e si intende innanzitutto di attività sessuale) quando non vi era una reale ed unica ed esplicita definizione della natura di questi atti, quando non c’era visibilità e tutto veniva fatto in modo nascosto; ma veniva fatto. “Don’t ask, don’t tell” ci viene in mente. Insomma per alcuni “si stava meglio quando si stava peggio”.

E fra uno sketch televisivo e l’altro, in cui la parodia dell’omosessuale regalava al pubblico ironiche macchiette, c’è anche la presenza di un’anziana trans che, tra le lacrime, dice che “la sessualità trans non è il vero sesso”, che a lei la vita sessuale “è stata rubata” quando è stata operata, perché poi non ha sentito più nulla, solo sofferenza, e ricorda con dolorosa nostalgia il suo corpo –maschile ma senziente- di allora.

L’unico giovane gay che viene intervistato è un adolescente che parla del suo recente coming out in famiglia e coi compagni di scuola. Anche questo risulta essere, però, un intervento piuttosto pessimistico: parla di “rischio di pugno in faccia” a dichiararsi al ragazzo che gli piace, e conclude con un fatalistico “andrà come andrà”.

La coppia di anziani gay insieme da più di 40 anni, che parla a favore del matrimonio e dell’omogenitorialità, ancora con sguardo innamorato l’uno verso l’altro, le cui parole non sono incentrate sulla sofferenza vissuta in passato ma sulla forza e la costanza dell’amore reciproco, sono l’unica testimonianza realmente positiva dell’intero film.

Un film, quello di Amelio, che parla sì dell’omofobia, ma di quella interiorizzata negli stessi omosessuali. Certo indotta dalla società dell’epoca, dal retaggio del fascismo e da una cultura intrisa di religiosità che sconfina palesemente nella superstizione. Ma ci chiediamo se la ricerca della narrazione solo della sofferenza, solo del sesso consumato di nascosto e in maniera promiscua e frenetica, solo delle lacrime, del senso di colpa e di non accettazione di sé, sia stata un’idea vincente di Amelio. Si esce dal cinema senza alcuna speranza: quella di cui parlava Harvey Milk, il cui messaggio è lontano anni luce da questo film.
Ci chiediamo il fine di questo documentario, così intriso di negatività da farci pensare che, se non fosse fresco egli stesso di coming out, il regista sarebbe stato accusato di omofobia.
Non basta entrare in sala con sguardo critico per evitare di percepire questa pellicola come anacronistica, e sentire il titolo stridere con il contenuto: la frase di Sandro Penna che ne ispira il titolo avrebbe dovuto essere cambiata, per l’occasione, in “Infelice chi è diverso”. Perché la diversità di cui parla Amelio non è peculiarità da valorizzare ma difetto da scontare per tutta la vita.

Un documentario che è un boomerang per la cultura omosessuale in Italia.

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