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Il lavoro femminile e la violenza, casa, servizi, reddito

Di Citizen Writers Domenica 24 Novembre 2013 alle 14:12 | 0 commenti

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Riceviamo da Luc Thibault e pubblichiamo - La maggior parte delle violenze di genere si consuma nel “rassicurante” ambiente domestico ad opera di persone conosciute: mariti, fidanzati, amanti, padri, fratelli, amici e colleghi. Non è frutto di un raptus, ne la manifestazione di una patologia e segue il macabro copione di un’escalation di episodi via via sempre più gravi.

Ha un andamento costante ed è trasversale alle classi sociali; il grado di istruzione degli autori è generalmente elevato; la maggior parte dei femminicidi avviene nel nord Italia e vede protagonisti per oltre il 70% dei casi uomini italiani.

Basterebbero queste poche righe – frutto del prezioso e continuo monitoraggio condotto dai Centri Antiviolenza e dalle Associazioni femministe – per sfatare la maggior parte degli stereotipi e dei luoghi comuni legati alla violenza di genere e a rendere ridicoli i coltivatori di  pulsioni sicuritarie.

Il femminicidio – i cui lugubri e sottostimati numeri sono inchiodati da anni- è solo la punta dell’iceberg di un fenomeno di ben più enorme vastità che vede 10 milioni di donne tra i 16 e i 70 anni vittime di abusi fisici e psicologici; tra queste circa un milione ha subito stupri o tentati stupri e il 14,3% è stata vittima di violenze da parte del partner.

1 donna ogni 2 giorni e mezzo viene uccisa prevalentemente per mano del partner e, principalmente, a causa dell’incapacità di quest’ultimo di accettarne le scelte di autonomia.

La violenza contro le donne è un fenomeno strutturale che origina dagli squilibri nei rapporti di genere, che si alimenta nei rapporti di potere presenti all’interno della relazione, che parla della volontà di controllo, dominio, possesso degli uomini sulle donne.

Non è perciò strano che la maggior parte delle vittime di violenza siano donne che cercano, anche attraverso il lavoro, di percorrere la faticosa strada dell’indipendenza e dell’autonomia.

La disoccupazione in Italia è al 12,5%, la crisi continua a falcidiare centinaia di migliaia di posti di lavoro creando insicurezza e precarietà per milioni di persone.

In questo quadro l’occupazione femminile non ne ha risentito tanto in termini quantitativi (pur rimanendo al di sotto del 50% e di oltre 10 punti inferiore alla media UE) ma principalmente in termini qualitativi.

La caratteristica del lavoro femminile continua ad essere la presenza nei livelli contrattuali più bassi, il maggior utilizzo di contratti precari e atipici,  una retribuzione del 20% inferiore a quella degli uomini, il ricorso massiccio al part time involontario, il maggior impiego in lavori non qualificati nonostante una maggiore scolarizzazione, la pratica delle dimissioni in bianco.

Se è vero che nel mondo del lavoro è aumentata la componente femminile sul complesso della popolazione attiva, si è però sviluppata anche la  tendenza a generalizzare la condizione tipica del lavoro femminile:  intermittenza, flessibilità, precarietà, sotto retribuzione. E’ quella che si chiama “femminilizzazione del mercato del lavoro”.

Il lavoro femminile ha così finito per svolgere negli anni la stessa funzione del lavoro precario e migrante: livellamento in basso dei salari e peggioramento delle condizioni di lavoro per tutti.

Sottovalutare questa condizione, lottare per i diritti, il reddito/salario, la giustizia sociale senza utilizzare anche la lettura di genere risulta perciò alla lunga miope.

Lo smantellamento del welfare e la privatizzazione dei servizi impattano prevalentemente sulle donne: da una parte perché sono esse stesse, principalmente, sia le lavoratrici dei servizi pubblici che coloro che ne usufruiscono, dall’altra perché le costringe all’aumento del lavoro domestico e di cura.

Tagliare i servizi significa rendere per lo più impossibile la partecipazione al mondo del lavoro per le donne, riproporre la tradizionale divisione del lavoro domestico, ricacciarle verso un welfare di tipo familistico.

L’assenza di lavoro o la presenza di un lavoro dequalificato e precario, la mancanza di politiche di protezione sociale, sul reddito e sulla casa, i tagli e la crescente difficoltà d’accesso ai servizi pubblici se non sono responsabili delle violenze in se lo sono sicuramente nell’impossibilità di rendere praticabili percorsi di affrancamento da essa.

Le risposte ad un fenomeno strutturale non possono essere emergenziali e repressive ne è, d’altra parte, minimamente sufficiente che alte cariche dello Stato facciano appello ad un generico senso di sobrietà e dignità nella rappresentazione mediatica delle donne.

Perché se è vero che è stucchevole la costante rappresentazione delle donne quali oggetto sessuale, lo è altrettanto l'ostentata rappresentazione di un modello di famiglia tradizionale in stile Mulino Bianco che considera le donne solo in funzione del loro ruolo di madri e mogli e non come individui, che non hanno bisogno di tutela ma pretendono diritti.

Una rappresentazione falsa e in via d'estinzione, converrebbe farsene al più presto una ragione, partendo dalla presa d'atto della composizione sociale di metropoli che vedono la presenza di oltre il 50% di nuclei monoparentali e dalla sacrosanta richiesta di diritti proveniente dal mondo LGBTIQ.

Servizi pubblici, reddito sociale come diritto soggettivo e non "familiare", casa e lavoro; educazione scolastica, strutture sanitarie – a cominciare dal diritto ad avere consultori e centri per l'interruzione volontaria di gravidanza senza obiettori; formazione di operatori sociali, sanitari e del diritto.

Riconoscimento e finanziamento dei Centri Antiviolenza, troppo spesso unico argine e rifugio per quante coraggiosamente cercano di uscire dalle violenze.

Le politiche di austerità, imposte da un governo asservito ai dettami dell'Unione Europea, rappresentano la negazione di quanto minimamente necessario per contrastare la violenza di genere. Un motivo in più per continuare a lottare.

Leggi tutti gli articoli su: Luc Thibault, Lavoro femminile, violenza donne

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