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Abbiamo bisogno di "utopia, omaggio a san Tommaso Moro nel V centenario della pubblicazione dell'Utopia

Di Italo Francesco Baldo Sabato 14 Gennaio 2017 alle 21:34 | 0 commenti

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Ospitiamo il nono articolo de La Voce del Sileno, rivista on line che "intende coinvolgere tutti coloro che hanno a cuore la ricerca filosofica, culturale e in modo indipendente la propongono per un aperto e sereno confronto".
Omaggio a san Tommaso Moro nel V centenario della pubblicazione dell'Utopia di San Tommaso Moro, Lovanio, Thierry Martens 1516. L'ultimo prìncipe: Utopo

Introduzione

Nello stesso anno, 1515, in cui Erasmo da Rotterdam inizia a comporre l'Educazione del prìncipe cristiano, di cui abbiamo già parlato, uno dei suoi più grandi amici, Tommaso Moro, giovane avvocato inglese, è ad Aversa per conto del suo governo per trattare una questione commerciale relativa ai fiamminghi che operano a Londra e qui inizia a scrivere la sua opera più nota, Utopia.

Anversa in quegli anni si avvia a diventare una delle centrali economiche, finanziarie e commerciali più importanti, grazie alle recenti scoperte di C. Colombo, di A. Vespucci che avevano suscitato grande interesse, grazie anche alla divulgazione di opuscoli relativi alle scoperte, come il Diario de Colon: libro de la primera navegacion y descubrimiento de las India (ed. recente Milano, Mursia, 1985) e quello stampato a Vicenza nel 1507, Paesi nouamente retrouati. Et novo mondo da Alberico Vesputio Florentino intitolato, (Stampato in Vicentia: cum la impensa de mgtro Henrico Vicentino & dilgente cura & industria de Zammaria suo fiol, 1507 a di III. de Nouembre). Narra Tommaso Moro che una mattina uscendo dalla cattedrale, allora si andava in chiesa non solo la domenica, incontrò l'amico Pieter Gilles (1486-1533), un umanista, editore e conservatore dei registri della città fiamminga, amico anche di Erasmo, il quale parlando con uno straniero, un portoghese di nome Raffaele Itlodeo, ossi il Contafrottole, reduce da un viaggio con A. Vespucci. Moro invita i due a casa propria e nel giardino il vecchio lupo di mare racconta dei suoi viaggi e della visita a tanti paesi diversi con leggi ed usanze diversissime. Il marinaio racconta immediatamente come gli europei hanno gravi malanni nei loro stati, dove tutto viene commisurato al denaro - la finanza d'oggi - tanto che più ladri si impiccano, tanti più ne sorgono, dove le guerre sono continue e i prìncipi con la loro vuota ambizione nulla fanno per il bene civile e sono pazzi, più della stessa pazzia, come ben aveva detto Erasmo nel suo Morias encomium seu laus stultitiae. Itlodeo dovrebbe mettersi al servizio di un re e consigliarlo, gli viene suggerito, ma egli non intende e inizia a raccontare di Utopia, un'isola nella quale Utopo, che le ha dato il nome, ha organizzato al meglio la vita sociale dei suoi abitanti. Viene invitato a narrare quanto ha conosciuto, visitando quell'isola, che diverrà nei secoli un preciso riferimento per il ragionamento politico e, ahimè, soprattutto, dopo K. Marx, emblema di visione e prospettiva politica illusoria, soprattutto dei socialisti francesi e inglesi, ma, stranezza della storia, il socialista massimalista B. Mussolini, chiamerà nel 1913-1914 "Utopia" la sua rivista quindicinale del Socialismo rivoluzionario italiano e da quella rivista proporrà l'intervento nel primo conflitto mondiale dell'Italia con il nn.13-14 del dicembre 1914. Mentre, giova ricordarlo subito, l'opera non intende essere l'invito a riflettere in politica senza l'affanno e la pressione delle cose immediate da fare, ma in una grande prospettiva, che viene enunciata e quasi paradossalmente, un po' come la Repubblica di Platone, che ha lo scopo di proporre attenzione e direzione etica, quando, come Tommaso Moro, divenuto Cancelliere del Regno inglese, si deve compiere l'amministrazione quotidiana di uno Stato. senza che ispira e alla quale conformasi, è il bene spirituale cristiano e la fedeltà ad esso, non si realizzano buone soluzioni nelle affari correnti. La morte del grande umanista attesta tutto ciò, come dimostrano le sue opere che spaziano dalla teologia alla letteratura e a quella riflessione, vicina alla De consolatione philosophie di Severino Boezio, che egli scrive durante la prigionia e prima di salire al patibolo, il Dialogue of Comfort Againist Tribulation (tr. it. Il dialogo del conforto nelle tribolazioni a cura di A. Castelli, Roma, Studium, 1970).

La vita

Thomas More (Tommaso Moro) 1477 o 1478-1535, coetaneo di Erasmo da Rotterdam è uno dei massimi esponenti dell'umanesimo internazionale, quella grande stagione che coinvolse tutta l'Europa in una visione positiva dell'uomo e della sua relazione con Dio, coniugando gli studia humanitatis con gli studia divinitatis, dove vi cercava l'armonia tra il macro e il microcosmo, tra l'uomo e Dio. L'uomo, capace per natura con il suo natural lume, la ragione, poteva anche in terra tendere a condizioni di vita morale e spirituale migliori, se avesse coniugato la sua riflessione sul bene con il valore del divino, ne è prova l'Epistula passionis di Moro stesso, scritta in carcere nel 1535 prima di salire sul patibolo. La Lettera riflette sul valore della pace e della tolleranza e ciò compie pensando alla paura di Cristo di fronte al mondo che lo condanna perché teme la verità che egli proclama e preferisce che ognuno la pensi a suo modo, ritenendosi "assoluto" a se stesso nella sua singolarità, invece di comprendere che nella pluralità delle comprensioni ci si avvicina tutti alla verità e cessano i conflitti.

Il giovane Tommaso compì studi letterari e giuridici a Oxford. Nel 1504 divenne membro del Parlamento e occupò da allora varie cariche politiche, tra cui nel 1524 quella di patrono e censore dell'università di Oxford, e poi sovrintendente di quella di Cambridge, fino a diventare nel 1529 Cancellerie del Regno sotto Enrico VIII; si dimise nel1532 per contrasti con il sovrano. In questa veste dovette affrontare le esigenze dinastiche del re, che temeva per l'Inghilterra l'orbita spagnola. Per non restituire la dote e per convenienza politica Enrico aveva sposato da vedova del fratello Arturo, Caterina d'Aragona, sorella di Giovanna la Pazza. Un'unica figlia era nata dal matrimonio, Maria, che regnerà dopo la morte dell'unico erede maschio di Enrico, Edoardo VI, in Inghilterra dove cercherà di ripristinare il cattolicesimo con mezzi che le varranno il soprannome di "Bloody Mary- Maria la Sanguinaria". Enrico VIII, re benvoluto in patria e alla corte papale, che gli aveva concessa la dispensa per il matrimonio con Caterina e lo aveva insignito del titolo di Defensor fidei per aver preso posizione contro l'eresia di Lutero, cfr. Assertio septem sacramentorum adversus Martinum Lutherum, London, Pynsonianis 1522, si preoccupava per la successione e pensò di "divorziare", perché le esigenze del Regno chiedevano che vi fosse un erede maschio. Per questo motivo chiese l'annullamento del matrimonio con Caterina per vizio di forma, non poteva sposare la vedeva del fratello. Roma rispose che per il matrimonio aveva già avuto la dispensa e quindi non si poteva annullare e soprattutto il papa temeva i contraccolpi dell'imperatore Carlo V, che dopo il Sacco di Roma, 1527, teneva in scacco proprio lo Stato della Chiesa. Enrico VIII un Atto di Supremazia nel 1534 si dichiarò capo della Chiesa inglese, e si auto concesse l'annullamento, quello che viene chiamato il divorzio, oltre al vantaggio di sopprimere ed incamerare i beni dei monasteri. Una sfida aperta al potere spirituale, che trovò in Tommaso Moro un grande oppositore; l'umanista disapprovò la politica reale e si rifiutò di giurare l'esclusiva fedeltà al sovrano e alle sue decisioni che chiedevano di non ottemperare agli ordini del papa. Il conflitto tra potere spirituale e temporale per Moro non poteva esserci e ne pagò le conseguenze insieme al cardinale John Fisher (1469 - 1535). Moro fu chiuso in carcere, processato, fu condannato a morte; non rinunciò alla sua fedeltà a Dio e al papa, consapevole che il potere politico quando si erge a dominatore di quello spirituale, che dovrebbe invece essere l'ispiratore delle azioni di un uomo politico ed in particolare del re, nega il suo stesso valore; la riflessione erasmiana sul prìncipe era certo nota all'inglese.

Salì il patibolo, considerando quel giorno, il 6 luglio 1535, come il suo giorno più importante nella vita terrena, doveva indossare un abito nuovo che il mercante italiano Antonio Bonvisi (1470 o 75- 1558) gli aveva inviato, ma non gli fu consentito di indossarlo perché sarebbe poi stato del boia, che però Moro compensò con una moneta d'oro. L'uomo di fede era consapevole che altro giudizio rispetto a quello umano lo attendeva, da buon cattolico sperava certo nella grazia e nel premio divini.

Il suo martirio insieme a quello del cardinale fu stimato sempre per la coerenza della fede e nel 1935 fu canonizzato per aver esercitato le virtù eroiche di fede, speranza e carità. Durante il Giubileo dei Governanti e dei Parlamentari nel 200 il papa Giovanni Paolo II lo proclamò a patrono dei governanti e dei politici, considerando quanto Pio XI aveva detto: "laicorum hominum decus et ornamentum". Egli "laico" seppe far convergere l'impegno politico e la coerenza morale, analoga, alla Cusano, dell'armonia che cui l'uomo deve tendere tra il soprannaturale. Infatti, egli è, come viene affermato nella richiesta per il patronato ai politici: "Martire della libertà perché martire del primato della coscienza che, saldamente formata dalla ricerca della verità, ci rende pienamente responsabili delle nostre decisioni, cioè padroni di noi stessi e dunque liberi da ogni vincolo che non sia quello - proprio della creatura - che ci lega a Dio".

Una figura certamente "non alla moda" tra i molti politici, d'oggi che credono ad una laicità propria e dello Stato priva di autentica morale e che si affidano alle fortune spesso solo materiali, dimenticando che l'uomo è una realtà che deve sempre esser considerata nella sua globalità, soprattutto come persona unica e irripetibile che vive la dimensione politica, ma questa non è certo il tutto e ad essa non si può ricondurre tutto. Ma questa via, difficile, non è nemmeno apprezzata teoricamente da coloro che, fattisi machiavellici, inseguono solo il potere, meglio il dominio, dimenticandosi sia del grande Fiorentino e soprattutto del Santo loro patrono.

Opere

Tommaso Moro scrisse molte opere, oltre a quelle già citate; la sua formazione umanistica lo avvicinò ai classici, tradusse i Dialoghi di Luciano, disserto in campo teologico e scrisse una vita di Pico della Mirando (London, Wynkyn de Worde, 1525?), il grande sostenitore della libertà dell'uomo come bene e non come semplice "volontà di fare ciò che desidera.

La sua opera più nota è il Libellus vere aureus nec minus salutaris quam festivus de optimo reipublicae statu deque nova insula Utopia, nota con il titolo abbreviato di Utopia, uscita a Lovanio per T. Martens nel 1516 in prima edizione e successivamente sarebbe dovuto uscire insieme alla Querela pacis undique profligata di Erasmo nel 1517, ma fu edita invece da Froeben a Basilea nel 1518.

La sua vita e le sue opere sono state oggetto di riflessione non solo a livello filosofico, ma anche nell'abito letterario, nella rappresentazione teatrale e filmica. Ricordiamo Robert Bolt, Un uomo per tutte le stagioni (tr. it. L.da Schio e M.Bertagnoni, Firenze, Sansoni, 1961), che parla della battaglia persa da Moro contro la determinazione di re Enrico nell'ottenere una Chiesa nazionale inglese che fosse sotto il suo controllo, da cui fu tratto anche nel 1988 un film TV con la regia di C. Heston. Del romanzo di K. Zuchardt, Stirb Du Narr (Muori matto), Halle, Mitteldeutscher V.,1961 ed infine ricordiamo la sceneggiatura del vicentino Antonio Baldo con il suo Un atto d'amore: Tommaso Moro: liberamente tratto da Un uomo per tutte le stagioni di Robert Bolt, Vicenza, Associazione Città di Vicenza, 2006.

L'opera

L'Utopia, che ha come protagonisti uomini storici e di fantasia, consta di due libri, nel primo, dopo l'epistola dedicatoria a Pieter Gilles, e una digressione sul modo con cui si venne a conoscere Itlodeo, non privo di cultura classica che aveva viaggiato con A. Vespucci, e alla narrazione che egli fece dei suoi viaggi, vi è la precisa denuncia dei mali della società e degli Stati europei in particolare l'Inghilterra dove aveva frequentato John Morton il cardinale di Canterbury (1420-1500), colui che aveva finanziato gli studi di moro. Mali che sono per gli Stati in primo luogo "le leggi poco giuste", l'eccesso dei ladri nella vita sociale, i nobili, oggi diremo i politici, che vivono in ozio e consumano il frutto del lavoro altrui, circondandosi "di un codazzo di fannulloni"; cosa questa che proprio il cardinale Morton stigmatizzava. Vi è poi la denuncia, sempre di Itlodeo, dei danni della guerra e degli eserciti mercenari che devastano e non solo tosano le pecore, ma le mangiano in modo che non vi sia l'anno successivo risorsa. Costante è poi la richiesta di buone leggi e di buoni governanti; e sempre riferendosi al colloquio con il Cardinale inglese, Itlodeo ci educe sulla visione politica del prelato; ad esempio sconsigliava i Francesi a conquistare l'Italia o metteva in guardia dai mercenari svizzeri. Con riferimento alla storia romana e al valore che grandi politici ebbero in quella Repubblica, ricorda il detto di Crasso: " Non c'è denaro che basti a un prìncipe che voglia tenere un esercito in armi." Itlodeo riferisce anche di altre popolazioni come quella dei Macaresi, che abitano vicino all'isola di Utopia e che non vogliono grande quantità di denaro nelle casse dello Stato, così il sovrano non potrà spendere troppo.

Il riferimento poi è costante a Platone, ma al Platone etico, quello che parla di eliminare la proprietà privata, ma non con fini economici, alla Marx e seguaci e soprattutto epigoni, ma alla proprietà che misura tutto con il denaro. Infatti, si afferma: "Dove il denaro è la misura di tutte le cose, sia ben difficile che mai si riesca a porre in atto un regime politico fondato sulla giustizia o sulla prosperità, a meno che tu ritenga che la giustizia si attui là dove le cose migliori vanno ai soggetti peggiori o che si instauri la prosperità dove tutte le ricchezze sono spartite tra pochissime persone: e neppure queste possono dirsi pienamente a loro agio quando tutti gli altri son ridotti in miseria." Parole di attualità se fosse la morale a reggere i discorsi politici.

Terminate queste considerazioni generali Raffaele Itolodeo, nel secondo libro, narra dell'isola di Utopia, che ha questo nome da Utopo, il quale conquistata l'isola di Abraxa (non bagnata da pioggia), le diede il suo nome, appunto quello di Utopia e condusse i suoi abitanti, gente rozza alla civiltà e alla costumatezza. L'isola comprende 54 città tutte quasi uguali per leggi, costumi lingua istituzioni. Non vi è proprietà, ma i terreni sono distribuiti secondo il bisogno, non padroni ma coltivatori che hanno anche metodi moderni, l'incubatrice per la schiusa delle uova di gallina, vivono con i prodotti della terra senza eccedere, i famosi beni naturali e necessari di Epicuro, e con reciproco aiuto svolgono i lavori più pensanti, come la mietitura. Ogni biennio venti persone per ciascuna famiglia vanno a lavorare nei campi e poi ritornano in città sostituita da altri. Il grande valore dell'agricoltura, che è alla base, anticipa una visione quasi fisiocratica (cfr. François Quesnay, 1694 - 1774).

Nelle città e in particolare nella maggiore Amauroto (incerta ed oscura significa il nome), la vita si svolge con grande attenzione alle leggi, che sono bene osservate e la pulizia vi regna in particolare per l'acqua che scorre in tubi di cotto. Si detto che vi è un preciso riferimento alla città di Londra che certo non vive come questa città di Utopia. Ognuno ha una casa fornita di finestre con vetrate; ma queste vengono scambiate tra gli abitanti ogni dieci anni, hanno orti come veniva esaltato da Virgilio.

La vita civile è regolata da votazioni democratiche; ogni anno ogni gruppo di trenta famiglie eleggono un magistrato, lo sifogranto, o filarco. Questi sono 200 ed eleggono, fra quattro candidati, uno per ogni quartiere in cui sono divise le città, nominati dal popolo, un magistrato supremo ademo, nella loro lingua barzane, che è in carica in vita a meno che non venga sospettato di tirannide. I magistrati debbono risolvere "alla svelta"le controversie. La vita scorre consapevole delle necessità e non del lusso, e ognuno impara l'arte che gli è più consona per natura, il lavoro è regolato e non si lavora più di sei ore e a ciò son dediti anche i magistrati, dedicando le altre anche agli studia humanitatis. Un'ora, dopo la cena, alla ricreazione e anche ai giochi che debbono però essere utili e non "insulsi" come quelli d'azzardo, i dadi. Itlodeo descrive i vari modi di evitare spese inutili anche nei fabbricati dove viene tutelato l'interesse pubblico. Questo è il fine, ossia il bene civile, in ogni aspetto, anche nel modo di vestire, nell'abolizione dei domestici, nella pulizia delle strade - le città nel Cinquecento non brillavano certo per la pulizia e talora nemmeno oggi -. Ogni cosa è ben regolata anche la cura dei malati che è fatta in ospedali pubblici e con grande attenzione e affettuose cure alla presenza di medici molto esperti, e dove la cura e preferibile in ospedale anziché a casa propria. Ma se la malattia è irreversibile allora gli stessi medici aiutano a comprendere che non serve quello che oggi chiamiamo l'accanimento terapeutico, e i sacerdoti, interpreti di Dio, accompagnano il morente. Ricordiamo dello scritto erasmiano de preparatione mortis Non si tratta di eutanasia, ma di lasciar fare alla natura. Grande attenzione poi è dedicata all'educazione, dove imparano anche a servire, le buone assuetudini di Leon Battista Alberti e nello studio ben raccomandato è quello del greco (non a caso i quasi tutti i nomi dei protagonisti e dei luoghi di Utopia sono di etimologia greca).

Insomma tutto è ben regolato e gli Utopiani non solo accettano le regole, ma le seguono, evitando ciò che non è necessario, come l'oro e le gemme con cui si trastullano i fanciulli e non sono considerate nulla. Gli Utopiani son più saggi degli stessi cristiani che han costruito Stati più per la ricchezza che non per il benessere civile degli abitanti. Perfino nel piacere gli Utopiani consentono alla natura e ai suoi naturali appetiti, rifuggendo i falsi piaceri e ricordandosi sempre che il fine della vita comune è la felicità dei componenti. In massimo grado è tenuta la ricerca filosofica come piacere di indagine della natura e sua contemplazione, perché da ciò possono ricavare conoscenze tecniche, utili a tutti.

Tutto deve avvenire secondo giustizia, ma non è egualitarismo materiale, ma condivisione intelligente delle regole, nella vita privata, nei matrimoni e perfino dei divorzi consentiti solo per adulterio o di insopportabile aggressività di carattere (stalking di oggi). Nella religione tutti possono professore la loro divinità, ma in generale sono monoteisti, ma molti " dopo che ebbero appreso da noi il nome di Cristo, il suo insegnamento, la sua vita, i suoi miracoli..." si sono convertiti, e nessuno li distoglie. Cercano di approfondire e di avere anche aver un inviato del papa. Itlodeo racconta di un convertito che era troppo zelante e negava valore alle altre fedi. Fu catturato e condannato per incitamento al tumulto non per vilipendio alla religione, come sosterrà qualche decennio dopo il Cancelliere francese Michel de l'Hospital. Hanno sacerdoti di straordinaria santità, non più di tredici in ogni città, tanti quante sono le chiese, che si occupano della morale e dell'educazione che tanto importante è per la vita sociale.

Tutto questo viene raccontato con dovizia di particolari e perfino il funerale non è triste, nessuno piange, ma il morto è accompagnato da canti e raccomandato a Dio. Insomma tutto è ben precisato e non vi è nemmeno l'ombra della tirchieria, perché l'economia non regge le sorti dello Stato, ma ognuno ha quanto gli serve, dato che la grande regola di base è il Bene che elimina rivalità, ingiustizie e sopraffazione, partigianeria e tutto quanto non fornisce serenità e benessere spirituale e materiale. Lo Stato è una grande famiglia e, ben lo sapeva Moro, in essa è l'amore reciproco che vale a fondamento e non le incerte relazioni che sono fondate solo sull'utile.

Ben contento è stato Utopo, il prìncipe, colui che ha iniziato questa vita nell'isola e tutti gli abitanti hanno abbracciato" queste regole di vita, che per il loro regime costituiscono fondamenta non solo di perfetta struttura, ma destinate a durate in eterno, almeno nei limiti in cui le congetture umane possono scrutare l'avvenire".

Alla fine del Racconto di Itlodeo, Moro certo si chiede se queste regole non siano anche "assurde" ovvero contrastino con il punto fondamentale per cui esistono gli stati, la mancanza di denaro e di proprietà, ma non ne fece menzione al narratore, ma riconosce che le vorrebbe" instaurate nelle nostre- europee- parti, anche se ci spera poco." Soprattutto dobbiamo ricordare utopia nei Sei versi sull'isola di Utopia del poeta laureato Anemolio, nipote di Itlodeo per parte di sorella, che affermano: "Gli antichi mi chiamarono Utopia per il mio isolamento; adesso sono emula della repubblica di Platone, e forse la supero (infatti, ciò che quella a parole ha tratteggiato, io sola attuo con le persone, i beni, le ottime leggi), sicché a buon diritto merito di essere chiamata Eutopia.".

Il testo è ben più ricco di quanto abbiamo riportato, ma a grandi linee conviene ricordare che sempre Moro ha in mente la positività della morale e che solo questa può dirigere la vita sociale, dove la moderazione e l'intelligenza delle cose regola tutte le relazioni.

 

I nomi dei protagonisti di Utopia, a cura di Beatrice Andretta

UTOPO = colui che non sta in nessun luogo o che non esiste, perciò l'irreale.

ITLODEO = colui che ha bisogno di frottole, perciò il mentitore.

ANEMOLIO = ventoso / futile / vuoto / inutile.

ADEMO = fuori dal paese, perciò assente.

ZAPOLETI = coloro che si vendono (o si comprano) molto facilmente

ALAOPOLITI = cittadini erranti / nomadi.

NEFELOGETI = coltivatori di nuvole.

AMAUROTO = oscurità.

ANEMOLIA = ventosa / futile / vuota / inutile.

ANIDRO = secco.

MACARESI = beato / felice.

Le citazioni sono tratte dall'edizione dell'Utopia, edita a Vicenza, Neri Pozza, 1978 in 500 esemplari nella traduzione di L. Firpo con un Invito all'Utopia di S.Berlusconi. Numeroso sono poi altre traduzioni e analisi dell'opera che costituisce per alcuni il contraltare de Il prìncipe di Machiavelli.

Fortuna

L'opera di Tommaso Moro ha avuto molta fortuna, ma più che l'opera in sé, il nome coniato proprio dall'Inglese, ossia utopia, che oggi è recepita non nel significato originario, ma in quello di un pensiero soprattutto politico illusorio, fantastico.

In Italia essa fu conosciuta anche in traduzione fin dal 1548, dopo le prime due edizioni in latino, con il titolo La Republica nuouamente ritrouata, del gouerno dell'isola Eutopia, nella qual si vede nuoui modi di gouernare stati, reggier popoli, dar leggi à i senatori, con molta profondità di sapienza, storia non meno vtile che necessaria, tr. it. O. Landi, 1548, ad essa seguirono molte altre e in tutte le principali lingue europee. La fortuna però, come dicevano non è della sola opera, è del nome dell'isola, che a partire soprattutto dal settecento, ha indicato la prospettiva politica illusoria, ma è soprattutto con K. Marx che bollerà il socialismo a lui precedente con l'aggettivo utopistico che si avrà il significato che ancora si usa generalmente. Certo il fondatore del comunismo opponeva al socialismo di P. J. Proudhon (1809-1865) e F. M.C. Fourier (1772-1837), al suo che lui definiva scientifico in ragione del fatto che egli riteneva di doversi applicare all'analisi dell'economia e della società, come ben sosterrà Lenin, il metodo scientifico delle scienze naturali, in particolare della fisica (cfr. Libro I de Il capitale, Prefazione) in uso nelle scienze naturali. In questo indirizzo marxiano anche e non poteva non esserlo, A. Gramsci; nei Quaderni del carcere, p. 812 (ed. Torino, Einaudi, 1975) che definisce "letteratura politica romanzata" l'Utopia insieme al Don Chisciotte, l'Orlando Furioso, la Città del sole, e a pp. 2292-93 paragona Il prìncipe del Machiavelli all'opera dell'Inglese.

Si è consolidato il significato marxiano e marxista utopia, ma temo che poco si conosca l'opera, la cui importanza è addirittura maggiore di quella de Il prìncipe, perché apre a quella ideazione dello Stato che non è frutto né del potere, né delle circostanze, ma della dimensione del bene morale, come la riflessione di Platone. Le "utopie" che seguiranno, in particolare quella del domenicano T. Campanella (1568-1639), scritta nel 160,2 La città del sole e quella incompiuta dell'altro Cancelliere del Regno inglese e di ben altra tempra, fu accusato e condannato per peculato, F. Bacon (1561-1626), scritta nel 1626. La Nuova Atlantide, non avranno certo il successo di quella di Moro, ma stanno a dirci come in politica la riflessione non possa mai essere solo quella relativa alla contingenza.

Considerazioni

L'opera di Tommaso Moro, è l'ultimo grande e umanissimo tentativo di delineare una visione politica dove la prima e maggiore preoccupazione è quella morale, ossia del raggiungimento del bene attraverso la dimensione sociale organizzata, ossia la repubblica il cui modo di essere, stato, è concepito a partire dall'organizzazione di un prìncipe, Utopo, conquistatore e organizzatore della vita dell'isola cui darà il suo nome, che non si limita agli aspetti giuridici, ma riguarda tutta la vita dell'uomo in società. Una delineazione completa in ogni suo aspetto, da quello materiale, privilegia l'agricoltura, a quelli amministrativi, i magistrati, comprendendo però anche i problemi religiosi, la prima vera affermazione della tolleranza, culturali, educativi, medici, e perfino edonistici che debbono però essere sopravanzati dal tema del raggiungimento possibile della felicità come bene morale, secondo quanto sosteneva il filosofo greco Aristotele nelle sue opere di etica. Questa è nel bene complessivo, ossia morale, al quale nessuno nemmeno i magistrati, possono sottrarsi. Il grande timore politico è l'egoismo dei singoli e per questo nessuna vera proprietà, ma un possesso, che non deve distogliere dal fine buono e il pericolo della tirannia che conquista il potere con le arti del leone e della volpe. Il capo supremo, eletto, seppur indirettamente dal popolo, debba essere per sua natura buono, il solo sospetto che possa essere un prìncipe machiavellico, lo fa decadere.

Una società ben amministrata e ben organizzata, dove il riferimento a Platone è costante, ma per il motivo che anche il filosofo greco pensò ad una repubblica il cui stato fosse quello morale soprattutto e a tal fine anche la proprietà comune. Non è il comunismo alla Marx e nemmeno di quello dei socialisti utopistici, è che il mondo dei beni materiali se non ha come fine quello morale, diventa prevaricatore della stessa dignità, ossia liberto come diceva Pico della Morandola, dell'uomo.

Una repubblica, Utopia, che non esiste né può esistere, ma è la direzione che chi si occupa di politica deve assumere, "vola" al di là della contingenza per proporre ideali autentici ed è consapevole che per la vita associata si deve pensare "alla grande", se si vuole maxima facere minima (anche le cose più piccole fa come se fossero le più importanti) di San Giovanni Berchmans (1599-1621), patrono della gioventù cattolica con Luigi Gonzaga e Stanislao Kostka.

Infatti, per Moro non si tratta solo della finalità e dei mezzi in ambito politico, questa la differenza con le prospettive di Machiavelli ed Erasmo, ma della vita complessiva dell'uomo in società. Proprio le regole di Utopia ci insegnano che esse se non sono fatte proprie da ciascuno vana l'opera dello Stato, per questo i sognatori dello statalismo, variamente coniugato, di ieri e di oggi finiscono o con il negare la libertà o invitare a evadere, negandole, le regole.

Si può certo e facilmente obiettare che Utopia sia un sogno, ne era certo consapevole anche l'Autore, ma proprio perché Moro era impegnato da laico nella politica ben sapeva come amministrare le cose piccole, ma queste si possono fare solo e soltanto se si possiede una visione maggiore delle piccole cose da farsi e questa visione non è politica o amministrativa, ma intende l'uomo e la sua vita e soprattutto, come ben diceva A. Rosmini: la finalità di una società è sempre e solo quella morale, retta dalla benevolenza e dall'amicizia dove ci si ama come membri di una comunità sociale stessa e dove si deve coniugare il bene oggettivo e il bene soggettivo, strappando le radici stesse del vizio politico, l'ambizione personale e la rivalità, ma concorrendo tutti, secondo capacità, al benessere e alla felicità comuni, fin dove questo sia possibile.

Purtroppo spesso molti dei cosiddetti politici non hanno letto e non leggeranno T. Moro, ritenendosi capaci da soli come il cosiddetto prìncipe machiavellico, di dettare le sorti della Repubbliche e degli Stati, leggendo il Segretario fiorentino nella loro singolare convenienza, non curandosi certo di una formazione cristiana come prescriva Erasmo e Machiavelli per il prìncipe. Non coglieranno nemmeno la " sua sottile ironia che cerca di farci capire che qualunque pur ottimale sistema politico, sociale, economico non sarà mai del tutto soddisfacente per le aspirazioni dell'uomo ma ciascun uomo, per quel che lo riguarda, deve tendere, ogni giorno, in ogni occasione, a far quanto è possibile per migliorare l'esistente. Pagando magari di persona." (S. Berlusconi da Invito all' Utopia, in T. Moro, Utopia, op. cit., p. XV). Infatti costoro non imiteranno Utopo, l'ultimo prìncipe, ma si muoveranno dapprima nella stagione dello stato moderno, dell'assolutismo e poi dell'elevazione, temo anche oggi, della parte al tutto, il totalitarismo, che appare sempre più in forme nascoste, soprattutto da parte di chi vive di nostalgia di una stagione politica che crede solo nell'economia e nel "tutto è politica" e che ha seminato l'Europa e il mondo intero di cadaveri, in ciò, sfruttando illusioni dette politiche senza morale, ci avvisano che ogni totalitarismo, compreso quello che aveva elevato a criterio politico la razza, sono un male.

Invece coloro che si occupano di politica, i veri politici, debbono avere visione dell'insieme e delle parti e rileggendo l'Utopia ricordarsi di ciò che scrisse l'umanista Guillame Budé (1467-1540) all'altro umanista inglese amico di moro e di Erasmo Thomas Lupset (1498?-1530), (Parigi 31 luglio 1517), riferendosi all'Utopia e a Moro: "L'età nostra re quelle venture considereranno il suo racconto come un semenzaio di istituzioni raffinate e vantaggiose, dal quale ciascuno potrà imparare queste usanze per un trapianto e acclimatarle nella sua patria".



Coordinatore de "La voce del Sileno" Italo Francesco Baldo
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